“Alpine Static” è il nome del secondo e potente album inciso su Sub Pop, prodotto dai Kinski, band americana di Seattle. Lo sviluppo delle tracce si appoggia prepotentemente sull’uso di possenti chitarre. Roba da dover tenere altissimo il volume dello stereo, livello-tipo “può-dire-cortesemente-a-suo-figlio-di-abbassare-il-volume”. Si, perché vi voglio vedere se proprio ci riuscite ad ascoltare “Hiding Drugs in the Temple” oppure “The Party Which you know will be heavy” a volume moderato o come sottofondo…
I primi tre brani di “Alpine Static” marcano strettissimo il “Seattle sound” nonostante tutto il disco sia concepito in maniera inusuale per una band di quelle parti, data una certa eterogeneità stilistica non proprio all’americana, spalmata su tutta la lunghezza dell’album, 60 minuti esatti e divisi in nove tracce, una differenziazione dei brani che va dai “sapori” seventies alla duttilità del rock degli anni novanta. L’intera fatica dei Kinski in generale dà la sensazione di essere stata costruita intorno alle chitarre e il risultato? Rock energico, coinvolgente, schizzato, molto più aggressivo rispetto al tentativo di dare un tocco di sperimentazione all’intero disco come una sorta di surf costituito da riff “battaglieri” e grinzose, divertenti ma ordinate “schitarratone” a ripetizione intervallate da esplosioni noise e velocissimi cambi di tempo; esempio classico: “The Wives of Artie Shaw”.
La sezione centrale e finale del full-lenght, sono, contrariamente alla prima parte, più riflessive e forse posso anche assentire “sperimentali” e dove più si può notare la vicinanza a sonorità delle band tedesche degli anni Kraut. Diciamola tutta a questo punto, anche con “Alpine Static” si potrebbe finalmente parlare della rivincita di tutti coloro che durante gli anni settanta hanno subito quella che gli stessi americani, con accezione un tantino negativa, fissavano in Kraut-Rock, una definizione dai più addetti ai lavori considerata stupida, banale e offensiva! La rivincita dei germanici di quel periodo che all’anagrafe è andato, ma che molto spesso, soprattutto negli ultimi periodi “ritorna” (Vedi Rother e Moebius oppure i Faust su Staubgold) può essere almeno sul nome: io suggerisco “Hamburger-Rock” (giusto per restare in tema “alimentare”), visto che, brani tipo “The Snow parts of Scandinavia”, il flauto e il cognome di uno dei componenti Mattew Reid-Schwartz suonano tanto Kraut! Preparate la rivincita o rocker, teutonici e stempiati, di un tempo: la riscossa a questo punto è garantita così, tanto da restituire la palla con un pizzico di orgoglio a più di trent’anni di distanza. In ogni caso, complimenti ancora ai Kinski e come sempre…alla Sub-Pop!
Autore: Luigi Ferrara