Fat Cat temporeggia. Ormai è più di un segnale. Detto di un 2004 assolutamente in sordina, l’etichetta – che avrà avuto forse un bel da fare nel traslocare baracca e burattini da Londra a Brighton – continua a farsi sentire solo per “release-metadone” poco proporzionate al proprio roster. E così, dopo il singolo degli Stromba (di cui però è in dirittura d’arrivo il full-length) e l’EP dei Mutts – due uscite peraltro diversissime – il “gatto grasso” tiene banco con altri due volumi della sua split series, i primi dopo i due raccoglitori 1-8 e 9-16, il cui pregio era quello di mettere idealmente sullo stesso piano a nomi di spicco (Kid 606, Dat Politics, Fennesz, Avey Tare degli Animal Collective, David Grubbs, Pan American, gli ultra-noise nipponici Merzbow), spesso in vesti insolite (Grubbs al piano), figure meno conosciute (Ultra-Red, V/VM, Ad Vanz) evidentemente beneficiarie di tali accostamenti. Oltretutto si tratta di split nel senso originario del termine: vinile 12”, lato A a me, lato B a te.
Effetto metadone, dicevamo, perché i 4 nomi coinvolti sono poco e niente in notorietà e – 3 su 4 – poco accessibili a europamericani per provenienza geografica, sicchè, miglior diffusione del nome dei diretti interessati a parte, non si prevede un gran cash-flow per la label. Il #17 si apre con The Ivytree, progetto solista di Glenn Donaldson, co-fondatore del Jewelled Antler Collective – che è anche una piccola etichetta di CD-R “artigianali” – in quel di San Francisco, nonché titolare del moniker Birdtree e di partecipazioni in vari gruppi (tra cui gli Skygreen Leopards, di cui presto dovreste leggere su queste pagine). Dopo vari ascolti di Charalambides e Christina Carter solista ce la possiamo cavare telegraficamente: anche Donaldson ama partire per la tangente con i vari strumenti a corde a sua disposizione (chitarra acustica, bouzouki), più organo e piccole, “casuali” percussioni, e lanciarsi in lunghi raga, perlopiù improvvisati, decisamente meditativi, alla maniera occidentale, altrimenti detto avant-folk psichedelico con qualche apparizione della sua voce falsettata che accentua il senso di fragile bellezza che promana dai 5 brani qui proposti. Roba che si ascolta senza neanche accorgersene, in parole poverissime. Archiviato.
Come pure già nota, per analogie, è la pratica di Chris Smith. Il chitarrista australiano però non si adagia su un cuscino di suoni, ma si cimenta nel dare voce all’ideale “voce” di uno spazio cosmico non statico, ma incessantemente mutante, secondo un incessante turnover tra corpi celesti. Forte di strati su strati di drone chitarristici, frequenze radio e remote picchiate di batteria, Smith fa tornare alla mente un po’ di cose accadute nella seconda metà degli anni 90, da certe “meteore” passate per la Kranky ai post-rockers bristoliani Flying Saucer Attack, erigendo un wall of sound poco propenso alle variazioni, che fa anzi della monoliticità il suo elemento di divenire (ricordate, in proposito, il Surgeon remix di ‘Mogwai Fear Satan’?). Poco da tirarne fuori, insomma, ma fermi, c’è ancora il #18 da passare in rassegna, e per un po’ le cose cambiano…
Autore: Bob Villani