Quelli dotati di memoria migliore ricorderanno forse quanto preannunciato mesi fa nel parlare dell’album omonimo dei Pink Mountaintops, presentati come “costola” – ma il discorso è un po’ più complesso, e vedremo perché – di questi Black Mountain e giunti all’album addirittura prima di questi (caso unico, forse, di side-project che preceda il “main one”). Preso un impegno, mantenuta la promessa: i Black Mountain approdano all’album, anch’esso omonimo, anch’esso su Jagjaguwar. Filtro rosa per la copertina di quel disco, nero per quest’altro – come i nomi suggeriscono, d’altra parte.
In effetti, così come presentata, la cronologia dei due dischi è falsata. Quello chiamato “Black Mountain Army”, collettivo artistico di Vancouver – Toronto, Montreal o dove altro, sempre molto comunitari ‘sti canadesi, eh? –, esiste già da tempo e ha già dato altri frutti discografici (Jerk With A Bomb su tutti). E i Black Mountain sono il completamento di quell’unica entità di cui avevamo finora visto la controparte rosa, ossia quella “gentile”, compiendo quindi la ricomposizione di una mistica dualità maschio-femmina, forte-debole, scuro-chiaro.
Non solo rock’n’roll “maschio” però, ma un brillante excursus a ritroso sulle pagine meno delebili e più significative della musica che più di ogni altra ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, e sugli episodi che ne hanno determinato l’affermazione come linguaggio ed estetica universale. Una carrellata cui non manca nulla, nemmeno una sigla, ‘Modern Music’, sorta di breve e frizzante “copertina” del viaggio che ci si appresta ad effettuare. La voce è sempre quella quasi “dolente” di Stephen McBean, dietro c’è qualche coretto femminile: quale miglior appetizer?
Siamo nel vivo. ‘Don’t Run Our Hearts Around’ è un deciso affondo sulle acide corde di Hendrix condito di dionisiache suggestioni; ‘Druganaut’ si apre scoppiettando una chitarrina funky, poi il motore si accende per bene, ed è un turbo-stoner graffiante e sensuale; ‘No Satisfaction’ è un più che esplicito omaggio alla ditta Jagger & Richards – quella del primo avviamento.
Sbucano fuori tutti i grandi a poco a poco, e l’ideale segnalibro e a metà quando i Black Mountain decidono di sollevare un po’ il piedino dall’acceleratore: ‘Set Us Free’, crepuscolo pinkfloydiano di fine anni 70 con assoli da Grateful Dead, sembra il classico, cosmico condensato (6-7 minuti) di riflessione sul destino dell’umanità. Ancor più ibrida è invece ‘No Hits’, mantrica jam sospesa tra siderali fluttuazioni alla Hawkwind, chitarra cripto-stoner e ipnotica base technoide. E si vede anche come ai Black Mountain non manchi, oltre alla fantasia, il coraggio di accostare grosse pietre miliari, senza però farle cozzare. E’ come provare a riscrivere la storia immaginando il mescolarsi questo e quel sound, raffigurando jam congiunte mai avvenute. Si vede qui come nella successiva ‘Heart of Snow’, il cui iniziale afflato lirico alla Jefferson Starship (esatto, siamo già a inizio anni 70 per Kaukonen e soci) si scioglie – “cuore di neve” –, brucia nella deflagrazione di chitarre sature, ancora lì, in vertiginosa accelerazione su una rampa di lancio per la stratosfera.
Chiusura in smorzata, come si conviene: lisergica e sgocciolante soul, ‘Faulty Times’ è la riposizione dell’epico libro 60s-70s al suo giusto posto, senza sapere se mai verrà riscritto niente del genere oppure no. Ma potrebbe bastare riprenderlo, e rileggerlo, ognuno a modo nostro. Con la stessa attitudine di un Black Mountain, e anche oltre…
Autore: Bob Villani