Finchè di una ripartizione di specifiche competenze musicali non ci sarà traccia in questa redazione, la firma in calce a questa recensione potrete trovarla tanto per un disco del genere (per il quale parla l’etichetta di uscita – e a buon intenditor, si sa, occorrono poche parole) quanto per release di matrice etnico-popolare. Quanto basta per confondervi le idee, o, meno minacciosamente, per affiancare a un orecchio addomesticato il più o meno comune buon senso.
Se invece non siete buoni intenditori mi è d’obbligo dirvi di come la Constellation, un tempo nota soprattutto per le edizioni in vinile dei dischi dei Godspeed You! Black Emperor (che in CD escono su Kranky), si sia affermata nel tempo come entità di spicco nel panorama elettro-sperimentale, non sempre e necessariamente “minimal”, per quanto il moniker del duo composto da Aden Evens (laurea in filosofia e matematica ad Harvard, una tesi su etica ed estetica, un trascorso come programmatore e un presente con una cattedra al MIT, oltre che come “ricercatore”, teorico e pratico, di musica) e Ian Ilavsky (musicista e co-fondatore della label canadese in questione) lasci trasparire tali intenti. I quali sono rintracciabili, a un primo ascolto, anche in “Alms”. Ma sono gli stessi diretti interessati ad invitarci ad andare più in profondità, con un messaggio sul dorso del supporto – “please play as loud as possible” – dal quale, evidentemente, è opportuno non prescindere.
E’ anche, forse soprattutto, l’erudito background di Evens – unito alla “mission” che anima l’esistenza stessa della Constellation – a conferire ad “Alms” una complessità che va oltre il semplice concept ambient-industrial che connota la sostanza strettamente sonora dell’album, così come è bene che stia alla larga chi crede di appiccicare il termine “glitch” alla frenetica reiteratività dei clangori ritmati di tracce come ‘Orientalism as a Humanism’ o – finanche in breakbeat – ‘Radio Free Ramadi’.
Tanto queste parti ritmiche quanto tutte le intricate suture di detriti e micro-suoni (ma anche degli scheletrici rintocchi di piano di ‘Pawk’ questo disco si compone) nascono da quasi tutto ciò che, diverso dal silenzio, possa essere catturato da una piastra di registrazione: tintinnìi e risonanze di oggetti metallici, rumori concreti, le immancabili field recordings. Un ampio spettro di fonti sequenziate e trasfigurate da quella tecnologia che, nell’assurgere a divinità del vivere quotidiano in quanto motore delle sue accresciute e variate manifestazioni, acquisisce la sinistra controluce di manipolatrice dell’umanità e violentatrice di chi ne subisce giocoforza l’accesso. E’ un pezzo di storia dei nostri giorni: l’utopia cambia pelle per diventare distopia. E non siamo affatto in pochi ad esserne in qualche modo coinvolti…
Autore: Bob Villani