E’ difficile non pensare al pop/rock d’oltremanica come a qualcosa di unitario. Quando ci affacciamo sugli States emerge sempre questa o quella scena: New York, Chicago e via discorrendo. In Gran Bretagna non c’è che Inghilterra e Scozia, se non, sporadicamente, Manchester, o il Galles. Le dimensioni della Corona sono sicuramente più ridotte, ma è opinione comune che il (brit)pop sembri una “faccenda” tendenzialmente omogenea. Eppure, nonostante una certa riconoscibilità di ciò che da qui proviene, non sempre è un processo di clonazione musicale quello in atto.
Prendiamo i Clayhill. Ok, non inventano nulla di nuovo, ma il loro assemblaggio di materiale già rodato non è di quelli che facciano storcere aprioristicamente la bocca. Forse per loro è già un bel passo avanti un contratto con una indie come la Eat Sleep, il cui ridotto roster – appena altre 3 band – può consentire di porgere una discreta attenzione verso il terzetto in questione, ma non è escluso che, ove si facesse avanti una major, non sarebbero soldi buttati, e forse avremmo un nome in più ad affollare i palinsesti di mtv e top-of-the-pops vari.
“Small Cicle” segue di poco il mini d’esordio “Cuban Green”, ereditando da questo ‘Grasscutter’, brano che gli stessi Ted Barnes, Ali Friend e Gavin Clark considerano particolarmente rappresentativo del proprio background come collettivo. E sempre i diretti interessati considerano l’entità cui hanno dato vita come una fortunata combinazione di tre anime diverse (folk per Ted, jazz per Ali, cantautorale per Gavin), peraltro residenti a distanza l’una dall’altra, e forse, con l’aggiunta di una sezione fiati alt-country, di archi e di una batteria come “guests”, qualcosa in più.
L’incipit del disco (‘Alpha Male’) può sollevare qualche dubbio: è il caso di andare a recuperare il sound effimero e poco personale di una meteora quali sono stati a fine dcennio scoso i Kula Shaker? E ancora, ‘Human Trace’, non pare quasi una cover lontana parente, ma pur sempre cover, di una ‘No Surprises’ a firma Radiohead? E’ dura brillare per originalità nel pulito, e spesso edulcorato, mondo del pop, e dobbiamo quindi anche essere grati ai Clayhill di non ingrossare le fila di tutte quelle band di cui non si sente il benchè minimo bisogno. Perché, somiglianze stilistiche o meno, il sound dei nostri (urban folk? urban country? qualsiasi cosa purchè non manchi “urban”…) riesce purtuttavia a funzionare, a farsi strada con una luce propria, a divincolarsi dal sensazionalismo e dalle pose di chi trova nel pop una facile scorciatoia per il successo commerciale. Non si ravvisano crepe negli arrangiamenti, e Gavin ha una voce “di gola” che non puoi scordarti così facilmente. Se non è una sana sudata o una tiepido giacere sotto una coperta ciò che si vuol chiedere a un disco, forse “Small Circle” può fare la vostra felicità. Senza che andiate a cercarvela su frequenze radio o tv…
Autore: Bob Villani