Forse arriverà il giorno in cui Patti Smith – cui questo disco, come da sottotitolo sopra omesso, è dedicato – si sarà stufata di essere sulla bocca di tutti ogni volta che si parla di New York e dei primi passi che il punk e la new wave ivi mossero. I Sonic Youth un debole per questo contesto ce l’hanno, “geneticamente” – lo hanno vissuto in prima persona, benchè ancora da “apprendisti” –, sempre avuto. E, di rimbalzo, anche per la “sacerdotessa” del rock, che ha saputo catalizzare sull’icona che è divenuta, rendendoli coerenti e compatibili, tanto il giovanilismo ribellista del punk quanto il profilo intellettuale e impegnato che il concept di “protesta” può assumere. Una combinazione che presto, nella loro carriera, anche i Sonic Youth hanno assunto, integrando il citato profilo, con la collana SYR, anche nella sua dimensione più strettamente musicale.
Ciò che principalmente semba distinguere i Sonic Youth, in tale versione avanguardistica, dai colleghi è la presenza appunto di un legame, anche se solo in forma inconscia o suggestiva, col rock propriamente detto, la possibilità aperta – ma raramente usata – che la materia musicale possa da un momento all’altro alleggerirsi e recuperare il primo aspetto di cui sopra. Gli esiti possono dare adito a varie interpretazioni, ma su questo ci soffermeremo più avanti.
Lo spazio ora è per Mats Gustafsson, il sassofonista-clarinettista che, da solista o a contatto con Brotzmann e Bailey, ha messo d’accordo tradizione free jazz e scuola microtonale europea, nonché colui che questa suite (divisa in 9 movimenti, null’altro che numerati) scrisse nel 2000, appositamente per Moore e soci – e i “friends”: Lotta Melin, David Stackenas, Lindha Kallerdahl e, nome più noto in ambito rock, Loren (MazzaCane – ancora in vigore?) Connors, che va a incrementare non solo la colonia newyorkese, ma soprattutto il contingente di chitarre, ben 5, fronteggiate dal solo fiato di Mats (sax contrabbasso nella fattispecie), da qualche “live elctronics” di Ranaldo e dalle voci, flebile e perversamente pseudo-infantile quella di Kim Gordon, processata al computer quella della Kallerdahl. Fuori dal suonato segnaliamo il live mixing di O’Rourke, atteso da un nuovo missaggio per l’edizione in vinile che verrà.
Ciò detto, si può immaginare come buona parte di questi 60 e passa minuti rappresentino una dura prova per un ascolto tanto disimpegnato quanto, per perseveranza e professionalità, accurato. L’ultimo tentativo tuttavia è andato a buon fine, così da superare la percezione di semplice ronzio indistinto che questo disco stimola. Le cose, ovviamente, sono ben più complesse, ma è difficile accorgersene, rendendo oltremodo “scomode” le righe a seguire. E’ sì fastidioso – e non per mera reverenzialità – stroncare, in maniera parzialmente – e necessariamente – “inconsapevole”, il lavoro di artisti che non si affacciano certo ora alle “colonne d’ercole” della sperimentazione, ma altrettanto fastidioso è, in maniera nuovamente – ma non necessariamente stavolta – inconsapevole, esaltare a priori tale lavoro.
Difficile anche valutare la condotta dei Sonic Youth. Non vorrei che da un momento all’altro di questa sezione “ardua” della loro attività avessero cominciato a prendere, oltre che gusto, anche la gente per i fondelli; ma d’altra parte è lodevole che la sezione targata Geffen, di maggior riscontro commerciale, non obliteri, e anzi presumibilmente finanzi, le produzioni più coraggiose.
Le sensazioni, allora. Il ronzio nelle orecchie resta, e non di rado subisce impennate “quasi-industrial” tali da far insinuare il sospetto di avere, da qualche parte in casa, degli operai al lavoro. E’ quanto può una line-up di cinque chitarre, ed è forse già qualcosa essere riusciti a scrivere musica per un simile assetto, e che lo stesso si sia concretizzato senza sollevare noie da turnover calcistico (leggasi “panchina lunga”). Kim Gordon, dal canto suo, esegue come al solito egregiamente, con quel filo vagamente rauco di voce che si ritrova in gola, il ruolo di oscura poetessa/narratrice, sfociando, a inizio traccia 6, in un (involontario? parodistico?) svocalizzare da workshop di arti marziali. Gustafsson furoreggia qua e là, con l’involontaria discrezione che scaturisce da un “1 contro 5” dal pronostico decisamente chiuso.
Volevate esiti melodici, o comunque diversi da quelli esposti? Certo, ma che almeno una delle due componenti abbia qualche forma di “disciplina”. Ma tra no wave e free jazz non è vita facile…
Autore: Bob Villani