Non è bello arrivare alla fine di un disco dei R.e.m. e accorgersi che di tutto ciò che hai ascoltato non è rimasto niente.
Lo riascolti due, tre volte, ma l’effetto – ahimè – è il medesimo: ti ritrovi con un pugno di mosche, assolutamente impassibile.
Senza che le tue emozioni – qualsiasi fossero state prima di premere “play” – possano aver subito la ben che minima “alterazione”.
Mi era successo già dopo aver ascoltato “Reveal”, il disco precedente. Speravo non mi dovesse capitare più, dopo l’ascolto di un nuovo LP della band di Athens.
E invece arriva questo “Around the sun”, che è semplicemente sconcertante in quanto a “piattezza”. E’ un disco patinato, con i suoni tenuti educatamente a bada, gli arrangiamenti insipidi, e un’insopportabile atmosfera edulcorata, che ti potresti aspettare da una qualsiasi muzak da supermercato, ma non da un lavoro di una delle più importanti rock band del pianeta.
La chitarra di Peter Buck è quanto mai in secondo piano, i cori di Mike Mills (per non parlare del suo basso) sono affossati sotto un mare di tastiere ed effetti elettronici da quattro soldi.
E’ fondamentalmente un disco di ballad, “Around the sun”.
Qualcuno per questo ha azzardato un paragone con “Automatic for the people”. Ma poco o niente della magia che ha reso così grande quel disco la si può ritrovare in questi solchi.
I R.e.m., in fondo, sono una di quelle band che non riescono a scrivere canzoni propriamente “brutte” manco se s’impegnano. Ma perché – ad esempio – far rovinare un bel pezzo come “The outsiders” dall’intervento fuori luogo di Q-tip, che si prodiga in un rap pressoché imbarazzante, roba che mio cugino di 6 anni in freestyle sarebbe capace di fare molto meglio? Quasi si rimpiange l’analogo esperimento di “Radio Song” (“Out of time”, 1991)!
Perché i meravigliosi vocalizzi di Stipe in “The worst joke ever” si perdono nel vuoto di una struttura sonora tanto inconsistente?
Perché ascoltando “The ascent of man” mi viene da pensare che un pezzo del genere lo potrei ritrovare come sottofondo di qualche mielosissima scena di una stupidissima commedia sentimentale made in Hollywood, senza poter fare a meno di ammettere che “ci sta bene”?
L’impegno politico professato in “The final straw” (un’ottima ballad folk-country, già sentita negli ultimi concerti della band) non serve a infondere un po’ di pepe, d’adrenalina, di verve ad un disco che suona asettico e innocuo.
A nulla serve neanche continuare a discutere dell’effetto della dipartita del batterista Bill Berry dalla band: “Up”, il primo lavoro in cui i R.e.m. si cimentavano (per forza di cose) con l’elettronica, a confronto era un capolavoro (e forse lo era a prescindere, ma fu tristemente sottovalutato). Piuttosto bisogna rassegnarsi a pensare ai R.e.m. come una band di quarantenni appagati, rilassati e un po’ a corto d’ispirazione, che non scriveranno mai un’altra “The one I love” o un’altra “Begin the begin”.
C’è da dire che ultimamente si sono attivati dal punto di vista politico (che negli U.S.A. vuol dire anche bruciarsi migliaia di copie vendute in un colpo solo): almeno non si sono completamente rincoglioniti, né si sono fatti atrofizzare del tutto il cervello dai milioni di dollari dei loro conti in banca. Magra, magrissima consolazione per un fan deluso.
Autore: Daniele Lama