Sembrava mancasse da un po’ all’appelloTara Jane O’Neil. “In the Sun Lines”, suo ultimo full-length, e quel “Music for a Meteor Shower”, album in collaborazione con Dan Littleton, sono stati letteralmente sepolti da oltre due anni di frenetici ascolti. “You Sound, Reflect” è l’occasione perché i nostri timpani riaccolgano la cantautrice del Kentucky, ma anche il mezzo con cui scoprire, con rammarico, come ci siano sfuggiti “The Joy Of” e “TJOTKO”, i due EP pubblicati successivamente ai citati album.
Forse non ci siamo persi niente di imprescindibile, ma l’ascolto di “You Sound, Reflect” è un buon segnale – forse confermativo degli esiti di tali EP – di come TJO sia riuscita a non “sedersi” sui valido risultati di “In the Sun Lines”, sviluppando – senza rinunciare a questi ultimi – sfumature che concorrono ad arricchire, e a rendere ancor più personale, la molteplicità di aspetti del suo sound. Laddove il precedente episodio discografico – solista e su lunga distanza – caratterizzava in una direzione “notturna” e ovattata la propensione intimistico-introspettiva di Tara, i brani di “You Sound, Reflect” evidenziano un maggior accento sulla strumentazione – varietà e intensità – e sul ritmo – inteso come vettore di dinamismo –, forse anche grazie ai vari ospiti reclutati (tra cui Sara Lund, batterista nei disciolti Unwound, e Miggy Littleton, di recente “scovata” nei brillanti White Magic ma già “al servizio” degli Ida).
Già nella strumentale ‘Take the Waking’, che apre il disco, questi segni sono evidenti: la chitarra, graffiante come ai tempi dei Rodan, è un cuore che pulsa, con moderata intensità, e che nell’intreccio col basso riesce a conferire al brano, pur in assenza di batteria, un forte senso di movimento.
Partenza in quarta, quindi, accentuata dalla successiva ‘Howl’, in cui l’intensità – la vera “arma stilistica” di Tara – si sposta dal lato strettamente sonoro a quello emotivo: voce e violino forgiano di questa ballata il “verse”, la cui reiterazione è una “trivella” che scava nella carne, alla ricerca dell’emozione, “falda acquifera” dell’anima, nel suo stato più puro.
Difficile mantenere questi livelli. Da ‘The Poisoned Mine’ Tara riprende quella dolcezza con cui si era fatta precedentemente ritrarre, quelle “melodie-cuscino” su cui far riposare il nostro ascolto. Tanto l’eterogeneità delle durate dei brani quanto l’assortimento sonoro – c’è anche un banjo in ballo, nel breve intermezzo ‘I Call You’ – rendono però piacevole – e attento – l’ascolto, fino a ‘A Snapshot’, in cui Tara ritrova il vigore di inizio disco, nuovamente intenta a frugare nelle profondità del sentire, con intensità, dinamismo, e un continuo senso di ricerca, come fosse qualcosa di perennemente inappagato.
C’è ancora spazio, in chiusura, per i timidi arpeggi di ‘Known Perils’ e ‘Tea Is better Than Poison’. Dolcezza, e ancora intensità, quella necessaria per riuscire a racchiudere tutto quanto detto in quei soliti, meravigliosi 40 minuti…
Autore: Bob Villani