Laura Veirs rappresenta, mi si passi l’espressione tipicamente postolimpica, uno di quei rari casi di doping musicale, ancora più apprezzabili se solo si pensa a quante volte siamo stati costretti a subire il processo opposto, ad assistere allo sfacelo psico-fisico e all’arrampicata sugli specchi di artisti in palese debito di ispirazione. Ascoltata circa un anno fa, non mi aveva fatto un’enorme impressione (eufemismo): troppo mosce le melodie, troppo country il progetto… manieristica era l’aggettivo che si addiceva a quella Veirs.
Evidentemente in pochi mesi qualcosa deve essere cambiato, perché “Carbon Glacier” racchiude almeno 5, 6 pezzi di assoluta classe, che non mi sarei mai aspettato dalla Laura del 2003. Sarà che il produttore Tucker Martine, un passato con Jim White e Howe Gelb, ha saputo tirare i fili che andavano tirati. Sarà che finalmente l’aria di Seattle, città dove la cantautrice abita da alcuni anni, ha iniziato a fare effetto. Sarà che gli album registrati in pochi giorni (12, nello specifico) hanno un che di spontaneo, di buona la prima. Sarà che Eyvind King alla viola (collaborazioni con John Zorn e Blonde Redhead) e Lori Goldston al violoncello (in tour con i Nirvana ai tempi di “In Utero”) sanno suonare, porca miseria.
O forse sarà l’atmosfera che pervade le 13 tracce, ammantandole di spettrale, gelida bellezza, quasi che del clima da falò sfigato di “Trouble by the Fire” si sia voluto conservare la dimensione notturna, scartando gli orpelli inutili. Se, infatti, nonostante un paio di pezzi più tirati (‘Salvage a Smile’, ‘The Cloud Room’), la radice acustica è immutata, è il trattamento dei suoni a fare la differenza, a pervadere il tutto di una luce sinistra: ridotto al minimo, eppure – o forse proprio per questo – in grado di veicolare quello che mancava alla prova precedente. Esemplare, in questo senso, l’iniziale ‘Ether Sings’: fedele alla regola che vuole il primo pezzo la summa di ciò che aspetta l’ascoltatore, la Veirs, con il solo ausilio della chitarra e di un campionatore, riassume l’idea di fondo di “Carbon Glacier”: meglio svuotare che riempire, e quello che rimane sa di semplice malinconia.
Più Kristin Hersh che Suzanne Vega, insomma. Una sorpresa.
Autore: Andrea Romito