Una volta si parlava di acid rock anziché, più “modernamente” (ma per favore!!), di stoner. Che col tempo ha anche finito di meritarsi la sua differenziazione (in peggio, direi) dalla prima denominazione, che ha finito per diventare numericamente marginale rispetto alle schiere di fotocopiatrici umane perennemente in funzione sui primi album dei Black Sabbath, col personale “toner” stilistico che li rende – come avviene per le vere apparecchiature – sempre più scuri, sempre più pesanti, sempre più rallentati, ma in fondo, chi ne ha bisogno (o biosogna prendersela con Ozzy e soci per aver fatto troppo pochi dischi?).
Nessuno invece sembra ricordare che a certe cose ci avevano pensato, anche se su linee sonore più acide, distorte e selvagge, veri pionieri dell’allucinazione hard come i Blue Cheer (e anche gli MC5, anche se i loro epigoni hanno quasi sempre preso direzioni più propriamente punk-rock), almeno finchè non vi capita sotto mano questo quintetto di Santa Cruz, California, dal moniker già eloquente depliant di supersonici viaggi astrali. “Field Recordings from the Sun” non è il loro nuovo album (che peraltro è uscita proprio da qualche settimana, col titolo “Blue Cathedral”, su Sub Pop), ma la ristampa di quanto analogamente uscito in suolo nordamericano nel 2002 su etichetta – sentite qua – Ba Da Bing! Che corrisponde, a occhio e croce, al rumore che fumettisticamente i neuroni emettono all’ascolto delle 5 lisergiche e kilometriche tracce di quest’album.
Blue Cheer, si è detto. Ed è difficile dissentire. Dall’inizio (oddio, i primi 2-3 minuti di ‘Beneath the Ice Age’ si addentrano in nebulose costellazioni kraut-rock) alla fine ne abbiamo per più di mezz’ora con chitarre sature, distorsioni a strafottere, turbo-basso da reattore di astronave, drumming devastante, urla disumane. Tutto a un volume folle, s’intende. E a velocità folle. Starne alla larga? E perché? Ok, descritto così il disco incute un giustificato timore, così come è di sicuro la chiave di lettura massimalista quella più idonea per capire questo disco e fruirne.
Però “Field Recordings from the Sun”, nel titolo, è più che una semplice metafora, e non è escluso che anche qualche estremista free-jazz possa trovare nei Comets On Fire la loro ragion d’ascolto. E vuoi mettere la circostanza di qualcuno che ha finalmente deciso di mandare, magari solo indirettamente, un bel link al buco del culo a tutti gli addicted da stoner-rock?!
Autore: Bob Villani