No, non è ancora tempo di musica hawaiiana, flauti andini o lamenti di vedove sicule, ma con un disco del genere possiamo anche menarcela un attimo come quelli che si occupano “di (quasi) tutto”. Jimmy Martin, il re del bluegrass negli anni 50 e 60. Stavolta non parliamo di alt-country, roots-rock o avant-blues. Non ci occupiamo di contaminazioni moderne che rimodellano storie musicali vecchie come il cucco. Stavolta è 100% bluegrass, è un viaggio nell’altroieri della musica, nel bianco e nero, nelle “folkways”, fuori dalle realtà urbane, dalla dimensione “giovane” ed “evoluta” che trova nel guardare avanti la sua necessaria ragion d’essere.
Il viaggio di questo disco inizierebbe nel 1954, ma c’è un bel po’ di strada, battuta in precedenza, che merita di essere ripercorsa. A partire da quella sterrata in mezzo ai campi di Sneedville, Tennessee, dove a 5 anni Jimmy Martin impugna la sua prima chitarra, quella da lui stesso ricavata da un contenitore di sigari Prince Albert, uno degli sponsor della Grand Ole Opry, la più famosa sala di concerti a Nashville, sorta di mecca per gli artisti country e bluegrass. Quella in cui Jimmy non verrà mai ammesso – con suo ovvio grande rammarico – come “headliner” (per dirla alla maniera “nostra”), ma solo come ospite. Come quando a 21 anni si propose a Bill Monroe per duettarvici, poco dopo essere stato cacciato dalla fabbrica in cui lavorava per l’abitudine di cantare (salvo tornarvici per ringraziare chi, cacciandolo, gli aveva fornito quell’”assist”), aiutandolo, da allievo a maestro, con la sua aggressiva chitarra ritmica e le tonalità alte del suo cantato, a dare una spinta energica al proprio sound. E’ la genesi di quello che è passato alla storia come “high lonesome sound”, quello che poi diverrà marchio della carriera in proprio di Martin.
Ed è così che ci reimmettiamo nel sentiero proprio di questa raccolta (Martin è del 1933 – ed è ancora vivo e arzillo). ‘On and On’ è eseguita da Bill Monroe and the Bluegrass Boys, ma è Jimmy a cantare e suonare la chitarra. E sono i tempi di “Lousiana Hayride” – il radio show in cui il nostro era di casa – gli stessi delle successive (in tracklist) ‘Ocean of Diamonds’ e ‘John Henry’, a partire dalle quali il titolare delle esecuzioni diventa ipse Jimmy Martin, e i suoi Sunny Mountain Boys. Con ‘Homesick’ inizia una cinquina di brani (‘Sophronie’, ‘Foggy Old London’, ‘Hit Parade of Love’ – uno dei 5 brani della raccolta scritti dallo stesso Martin, non sempre da solo, in mezzo a brani altrui e traditionals – e ‘Who’ll Sing for Me’ gli altri) della cui disponibilità va ringraziato Mike Seeger (della famosa “stirpe folk”), che tali brani registrò nel 1960 al Sunset Park di West Grove, Pennsylvania.
Altrove troviamo brani editi ma da tempo out-of-print presso quelli della Universal (‘I Like to Hear’em Preach It’, la title-track e ‘Losing You’) e perlopiù di pugno di Martin, ‘Poor Ellen Smith’ (“Martin-written” anch’essa), registrato nel 1965 al festival di Fincastle, Virginia (il primo weekend-festival di bluegrass, quello che avrebbe ispirato la nascita dei tanti altri, in lungo e in largo negli States, a seguire) e messo a disposizione dai Ralph Rinzler/Smithsonian Folkways Archives. E infine 4 brani (‘You Don’t Know My Mind’, ‘Free Born Man’, ‘Brakeman’s Blues’ e il brevissimo epilogo di ‘Time Has Made a Change’) registrati in alcuni festival di questi anni (tranne l’ultima, nel salotto di casa Martin) da George Goehl, colui che, nel vedere Martin dal vivo, è stato talmente catturato dal suo carattere mutevole, ribelle (quello che gli ha ostruito la ribalta dell’Opry) epperò magnetico da ricavarne il film di cui al sottotitolo di quasta raccolta.
Ecco, word mi ha già quasi ceduto una pagina e a voi che rimane? Una carrellata di dati bio-anagrafici? Ma, dico, credete che il bluegrass, negli anni 50 e 60, fosse lì a disposizione di qualche evoluzionista dell’umana arte sonatoria per forgiare forme ante-litteram di crossover? Piuttosto – e sprofondo ancora una volta nel soggettivo – subisco un certo spaesamento nello spendere parole per un chitarrista quando ciò che più mi affascina di questa voce rurale d’America sia quel “giocattolino” sonoro che è il banjo (e quei violini, che dire?!). E poi come resistere al richiamo di questa figura, di questa storia, e di questa Thrill Jockey, che passa dai Mouse On Mars al bluegrass – passando per Tortoise, Trans am, Howe Gelb – come se niente fosse, e come se la musica sia qualcosa da raccontare quanto più per intero possibile. Lode, a tutti.
Autore: Bob Villani