Una volta avevamo il new acoustic movement. Forse ci pensavamo come all’ultimo bastione di acusticità contro l’arroganza degli elettrici dexcibel rockettari. E non avevamo ancora sentito nulla, mi sa. Manco il tempo di riporre in archivio le CocoRosie (e Directorsound, anche su coordinate diverse, dove lo mettiamo?) ed ecco un’altra principessa del sound scarno che più non si può. Qual è l’essenza di dischi del genere? La voce, infantile e celestiale? Le melodie, innocenti e fuori dal tempo? La suggestione, di angeli scesi in terra (e forniti di sesso, quello “gentil”)? L’idea, affascinante, che la “distinzione” porti il “marchio” della discrezione anziché quello della ribellione?
Di Joanna Newsom abbiamo indirettamente già narrato abbastanza. Ma c’è dell’altro, e non è neanche il caso di impostare il discorso su di lei in parallelo alle sorelle Casady. C’è una voce infantile, quasi da Zecchino d’Oro a stelle e strisce, cui non è facile disegnare un corpo adulto attorno, o forse neanche un corpo tanto sembra, a tratti, lontana da questo mondo. C’è un’arpa che forgia un delicato velo di eteree cantilene. C’è un piano che potrebbe ricordare il rigore di acerbe lezioni di solfeggio, epperò capace di sprizzare la gioia di chi sa bypassare le regole con stile. C’è una chitarra acustica, ogni tanto, ad arrotondare e ammorbidire ulteriormente il sound. C’è un afflato folk, fors’anche bluegrass, cui è però difficile associare campi, piantagioni o roba del genere. C’è un insieme di ornamenti, accennati o anche solo suggeriti alla nostra fantasia, capaci di riempire il vuoto C’è l’immaginazione, tanta, come fonte di ciò di cui Joanna canta, sorta di barrettiana ‘Word Song’ spalmata nell’arco di tutte queste 12 canzoni.
C’è la capacità di rendere il proprio estro fruibile pur mantenendolo su frequenze altamente personali, e paradossalmente bizzarro per quanto è naif (e sì, di queste 4 lettere abbiamo già abusato in passato). C’è che se non ce la sentiamo di mandare affanculo qualcuno, forse la cosa migliore è adagiarsi su giacigli sonori soffici come “The Milk-Eyed Mender” e lasciar respirare, per una volta, anche quei due orifizi ai lati del cranio.
Autore: Bob Villani