Fenomenologia di una recensione: arriva un bel pacco 30 cm di lato da qualche distributore. Lo si apre, si archiviano i titoli in un database e i dischi negli scaffali. Se il nome non gode di una minima fama nè di un buon fato, per il passo fisiologicamente successivo – ossia il prendere il disco, portarselo a casa e recensirlo – possono passare anche svariati mesi.
Con quel reggiseno in copertina e una stampa del supporto che ne fa, millimtericamente, una tetta bidimensionale (e non “strabica” – il capezzolo cade proprio al centro), Tara Delong non avrebbe dovuto meritare un’evoluzione “patologica” della sua pratica di recensione. Purtroppo nella scelta di un ciddì vanno spesso a interferire fattori non pienamente razionali, e nella mente di chi scrive la dance-punk-rapper newyorkese s’era vista – chissà perchè – associata alla figura di una folk-singer depressa e in odore di lesbismo (oh, nulla in contrario).
Invece Tara è un gran peperino. La Fatal Recordings è l’etichetta di Hanin Elias (Atari Teenage Riot, più u menage artistico con Khan). Roba non proprio tranquilla. Ed è proprio in quel di Città del Messico, ultima dimora del pigmalione di origini turche (ha quasi un harem di musiciste quel maledetto…) che la Delong è andata a svernare per confezionare questo disco.
“E che disco” è quanto di poco originale stimolano a esclamare i primi 3-4 brani. La opening (nonchè title) track, più che hardcore-rap (come Tara viene annunciata), è una potenziale electro-disco-punk hit irresistibile al punto da far nascondere gente come Le Tigre: ritmo inarrestabile, rime e metrica serratissimi, ma attenzione, niente crossover!! Non c’è altro da fare che muovere ogni parte del corpo. La successiva ‘The Communist Diet’ non fa che calcare la mano sulla componente punk-wave (New York, che vi avevo detto?) già implicita nel brano precedente. Traccia #3 e siamo alla sintesi perfetta ed equlibrata di quanto frattanto ascoltato: se la title-track è un singolo che non ha nulla da temere, ‘Big Butt Daniela’ ne è l’ideale facciata B.
Proprio questo brano segna l’ingresso del cantato in spagnolo (Mexico City, che vi avevo detto?), che grosso peso avrà già a partire dalla successiva ‘Orgia de Sangre’. Credo sia solo un caso, ma la cosa coincide col calo qualitativo della release. Calo fisiologico, tutto sommato, se riflettiamo sul livello assolutamente stellare dei primi 7-8 minuti di musica, anche se non all’insegna di un qualche appiattimento o monopolio stilistico: se ‘Divorce’ e ‘Montezuma’s Revenge’ vedono troneggiare abrasivi riff di chitarra (shoegazer nella prima, preoccupantemente nu-metal nella seconda), ‘Silicone Joan’ si impaluda in un sound più “mentale”, mentre ‘The Shooter’ vira su un sound più dance-e-basta di scarsa efficacia.
Altri felici colpi di reni – prima dello sciagurato finale caraibico da social-dance di ‘Soy Machina’ – sembrano essere l’intrigante “gangsta-wave” – se mi passate questa nuova licenza lessicale – di ‘Another Day Gone’, il minaccioso rapping di ‘Overdose Scare’ e la “gommosamente” (nel suo essere un nuovo piacevole esame per le proprie giunture) ritmata ‘Manic’. Bè, al prossimo disco staremo di sicuro più all’erta. Spero anche voialtri lì fuori.
Autore: Bob Villani