I Decemberists, giovane band statunitense, li conobbi qualche tempo addietro, e non mi fecero una grossa impressione. Castaways and cutouts mi sembrava carente proprio lì dove un buon disco pop dovrebbe colpire, ovvero nel rendere melodia una serie di note e, più in generale, nel comunicare all’ascoltatore uno o, se possibile, più stati d’animo piacevoli. A pochi mesi di distanza, ci riprovano con HMtD, e già qualcosa è cambiato. Produzione ed etichetta sono quelle, ed anche con l’iniziale Shanty for the Arethusa i cinque americani suonano ancora come una cover band dei Coral, solo meno nevrotica. Le cose migliori, allora, vanno cercate altrove. Come nella chitarra acustica e nei versi di As i rise, sette minuti di spleen chiusi da un profluvio di sax e rumori assortiti, oppure nella ondeggiante The gymnast, high above the ground, che alterna improvvise sterzate elettriche a toni malinconici. Pop che scorre via gradevole, ma per fortuna c’è anche qualcosa di più che affiora qua e là. Un album non facile, in cui a prevalere sono i toni cupi (con qualche piacevole eccezione: Los Angeles, I’m yours è un ironico quadretto della metropoli californiana), con il quale i Decemberists sembrano abbandonare la ricerca della via rapida al successo, che aleggiava sul lavoro precedente, per avviarsi sulla strada della maturità. A chiudere il tutto, la voce di Colin Meloy, cui la rete dedica più di una fan page. Certo, manca il colpo di genio, ma per quello, temo, occorre cercare altrove.
Autore: Andrea Romito