No, stavolta è in tutto e per tutto “nuovo album” per gli Old Time Relijun. Ci eravamo occupati di loro già qualche mese fa per un capitolo discografico improprio, “Varities of Religious Experience”, sorta anche di metadone per coloro i quali hanno bisogno dell’uomo selvatico e della sua sparuta ciurma per sopravvivere (e mi ci metto tranquillamente dentro…). Di Arrington de Dionyso non posso ormai dire più nulla senza la certezza (neanche il rischio) di ripetermi. Piuttosto segnalo il cambio di batterista, già annunciato, nel trattare della citata retrospettiva, a proposito delle dimissioni di Phil Elvrum (ben giustificate dall’impegno come Microphones-ora Mount Eerie e come “assistente-padrino” per una moltitudine di compari new-folk in quel del north-west). Solo che adesso il nuovo ha un nome: Rives Elliott. Giovanissimo, pare.
Veniamo al disco. Il campionario di immagini-visioni di Arrington sembra attingere anche stavolta da una natura selvaggia e animata di forze misteriose e pagane, inconsapevolmente malvage nella loro ancestrale pre-religiosità. Il concetto dominante è sempre quello del “pre”-qualcosa: il contesto l’Old Time Relijun-sound si dipana viene, in un’ideale cronologia, prima di ogni idea di Dio e di ogni cosciente codificazione, anche sotto il profilo musicale.
Rispetto ai precedenti episodi, comunque, “Lost Light” sembra segnare un passo verso un sound più accessibile. Sembra, ma il discorso è più complesso. E’ sì un disco più ascoltabile, ma questo si verifica non tanto in virtù di un ammorbidimento dei suoni, ma del fatto che i brani si caratterizzano come più organici e unitari nella loro visione complessiva. Laddove in passato una manciata di brani dall’irresistibile esplosività (‘Archaeopteryx Claw’, ‘Jail’, ‘Casino’ in “Uterus and Fire”, la stessa ‘Jail’ italianizzata in ‘Carcerato’ nel mini “La Sirena de Pecera”, ‘Vampire Sushi’ o ‘King of Nothing’ nell’ultimo “Witchcraft Rebellion”) gettava inevitabilmente ombra sul resto dei brani – alcuni dei quali peraltro consistenti in brevi e atroci intermezzi strumentali, o comunque oggettivamente meno “validi” –, in “Lost Light” troviamo 10-brani-10 ognuno potenziale protagonista nell’economia dell’album, e nei quali, d’altro canto – e adesso sposiamo la tesi della maggiore accessibilità –, gli ermetici estremismi di scacciapensieri sono totalmente rimossi. Fermi restando gli altri trademarks del sound dei tre eroi preistorici: chitarra scordata, contrabbasso pulsante, drumming grezzo e, quando occorre, impetuoso, furiose scorribande di bass-clarinet (attenuate quanto a frequenza) per un proto-blues che sa, però, di dover pagare un consistente dazio alle folli scorrerie di Beefheart.
Oltretutto tale numero di brani è relativamente esiguo rispetto al passato. E visto che la matematica non è un’opinione, risulta evidente come si sia allungata la lunghezza media di ciascuno. Anzi, è possibile individuare tre tipologie abbastanza definite di OTR-tunes: da un lato abbiamo brani (‘Cold Water’, ‘Music of the Spheres’, ‘Pardes Rimmonim’ e ‘Cold Water, Deep Underwater’) in cui la tipica reiteratività dei nostri viene dilatata e resa meno frenetica, accentuando la loro valenza ipnotica fino ad assumere una connotazione quasi psichedelica; all’opposto troviamo episodi (‘This Kettle Contains the Heart’, ‘Tigers in the Temple’ e la conclusiva ‘War Is Over’) isterici e infuocati, che ci riportano al passato stlisticamente “eterogeneo” della band.
In mezzo troviamo una sorta di ibrido-equilibrio, vuoi per il mid-tempo su cui i brani si attestano – le iniziali ‘The Door I Came Through Hase Been Closed (But I Keep Trying)’ e ‘Vampire Victim’ – vuoi per il crescendo ritmico e sonoro che li caratterizza (‘The Rising Water, the Blinding Light’ – e siamo a tre titoli con l’acqua per lo mezzo…). E per me tutto ciò è ok, a dispetto di un’iniziale diffidenza che, forse, sarebbe stata fatale, ai fini di un giudizio, qualora non si fosse trattato dei miei beniamini. Ma, come si dice, tutto è bene ciò che finisce bene…
Autore: Bob Villani