Washington DC, 2004. I Trans Am, dopo aver percorso gli affascinanti tragitti retro-futuristi di “Future World” (’99), dopo aver omaggiato (o parodiato?) il suono degli anni ’80 nel recente “TA” (’02), si guardano intorno e nel “qui e ora” trovano l’ispirazione per il loro disco più “politicizzato” di sempre. O meglio: per il loro primo disco “politicizzato” da sempre.
Washington DC 2004, appunto. Una città praticamente blindata, continuamente sorvolata da elicotteri militari, percorsa da auto con le sirene spiegate (suoni ripresi in “presa diretta” dalla band e inseriti nel disco), e attanagliata dalla paura e dalla tensione. Contemporaneamente: la guerra di “liberazione” dell’Iraq, i discorsi deliranti di Bush (anche questi campionati e in più occasioni inseriti nel tessuto sonoro) e l’ipocrisia di un sistema malato… tutti elementi che esplicitamente o implicitamente ritroviamo in “Liberation”.
Il disco si apre col funk-rock muscoloso dello strumentale “Outmoder” a mo’ di intro, mentre la seguente “Uninvited Guest” non è altro che una distesa di synth e un beat electro ultra-essenziale che scorrono sotto la voce, progressivamente sempre più distorta, di George W. Bush.
La breve “Idea machine” sfoggia riff di chitarra aggressivi e ritmi quasi tribali. “White Rhino” è nella sua semplicità, uno dei pezzi più coinvolgenti: pattern ritmici essenziali, suoni di synth alienanti, tastiere fluttuanti, voci velocizzate e voci robotiche, ossessive. “Music for dogs” è una dichiarazione d’amore ai New Order, mentre “Total information awarness” incastra voci filtrate dai vocoder con esplosioni sonore alternate ad un angosciante incedere da incubo cyber punk.
“Remote control” tradisce tentazioni pop, con tastiere che intessono melodie accattivanti e un beat un tantino più rassicurante. “Divine invasion” è il perfetto punto d’incontro tra la vocazione per i suoni “spaziali” dei sintetizzatori e quella per le cavalcate in cui chitarra e batteria s’inseguono in peripezie mozzafiato, elementi essenziali del suono Trans Am oggi come oggi.
Un disco volutamente pe(n)sante, a tratti un po’ auto-indulgente (ma non è forse questa una caratteristica di tutti i lavori dei Nostri?), con rimandi – in più occasioni – al loro sound degli esordi. Apprezzabile senz’altro il coraggio. Che di questi tempi “cantare fuori dal coro” negli States non deve essere proprio semplicissimo…
Autore: Daniele Lama