Un album sorprendente. La prima sorpresa consiste nell’apprendere che quei buffi pezzetti metallici che popolano in numero variabile le mie tasche recano il nome di un buffo mammifero australiano, a metà strada fra il koala ed il canguro, di cui le liner notes mi spiegano abitudini sociali e sessuali. La seconda sorpresa sta nel fatto che può realizzarsi un concept album anche sfruttando un’idea assurda, come il voler rendere omaggio (oltre al suddetto quadrupede) a quelle nazioni del vecchio continente che, abbandonata la propria valuta, hanno deciso di entrare a far parte del mercato unico, esprimendo la profonda tristezza che colpisce chi diventa europeo (?).
Dieci pezzi, cantati in idiomi ai più ignoti, dall’olandese allo svedese, frutto di sessions registrate in giro per il mondo nel biennio 2000-2002, ognuno dei quali vorrebbe cogliere lo spirito del paese cui si riferisce. Si passa gioiosamente dall’orgoglio tedesco per le proprie autostrade all’amore dei portoghesi per il fado… a noi italiani è toccato ‘Arrivederci, Baby’, un inno al tacchinaggio in Vespa, notoriamente lo sport preferito da tutti i maschi del belpaese. Avanti così. Ashtray Boy, da parte, sua, è un’etichetta dietro la quale si nascondono il band leader Lee Randall da Sydney e i chicagoani Carla Bruce e Jay Niimi, cui si aggiungono di volta in volta musicisti provenienti dai quattri angoli del globo, fra i quali compare anche Liz Phair. Il risultato? Un frullato sonoro difficilmente digeribile, nel quale confluiscono paranoie elettropop e altre inutilità dance, accatastate su melodie tradizionali mitteleuropee. Decisamente straniante. Se questo è il sound della nuova Europa, stiamo freschi.
Autore: Andrea Romito