Continuiamo a farci del male. Continuiamo a snobbare i film dei documentaristi italiani, a relegarli nella sezione dal titolo-sfottò Orizzonti. E’ successo all’ultimo festival di Venezia dove a rappresentare in concorso il Belpaese c’erano due film griffati ma di scarsissimo “orizzonte”, Bellocchio e la Comencini. Sì, c’era anche Ciprì, ma con zero possibilità di vittoria.
Invece Di Costanzo dimostra che a svitare con pazienza a uno a uno i bulloni del provincialismo (bravo presidente Mann, l’unico ad avere la faccia tosta di dirlo in conferenza stampa) sono proprio le idee glocal, di cui i lavori italiani spesso mancano perchè o solo pretenziosamente global o troppo local. Idee che si riparano in un’unità di luogo (uno spazio abbandonato in un quartiere periferico di Napoli) e sanno parlare la lingua dei simboli, chiave per arrivare in tutto il mondo. I due ragazzini protagonisti – Alessio Gallo e Francesca Di Riso, esordienti -potrebbero essere colombiani, brasiliani, giapponesi, persino svizzeri. Cittadini cioè di un qualunque paese che abbia uno straccio non dico di criminalità organizzata ma anche di gang di strada.
Le loro dinamiche prevedibili, i loro racconti, il loro annusarsi, i pensieri lasciati a metà, il dialetto monosillabe, la telepatia, sono segni universali, adottabili a qualsiasi latitudine. Uno slancio in avanti da Leone d’argento se non d’oro. Ottimo perciò Leonardo Di Costanzo – e con lui Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente, sceneggiatori – in grado di inscatolare il molteplice (cioè il complessissimo vissuto quotidiano dei posti borderline) nel semplice di un ammasso di pareti scrostate, una volta teatro di santi matti e dottori sadici (l’ex manicomio Leonardo Bianchi di Napoli).
Una quindicenne rinchiusa per evitare che veda il moroso, della famiglia avversaria. Chi vi ricorda? ‘L’Intervallo’ sarebbe Shakespeare se solo gli scissionisti fossero i Capuleti e Poggioreale fosse Verona.
Autore: Alessandro Chetta