di David Cronenberg. Con Robert Pattinson, Juliette Binoche, Kevin Durand, Paul Giamatti
Freddo, impassibile, distaccato, è il cinema di David Cronenberg che trova in Cosmopolis la sua apoteosi e nel suo protagonista Robert Pattinson uno straordinario interprete.
Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes ne è uscito senza alcun riconoscimento spaccando in due la critica e scatenando sul web una battaglia combattuta a suon di post e tweet incrociati -del resto, quale arena migliore per il dibattito su una storia incentrata in buona parte sugli azzardi dell’ipertecnologia.
Perchè è del delirio della tecnica, dello strapotere della finanza e della assoluta mancanza di legame tra queste ultime e la vita reale ciò di cui si parla in questa pellicola del visionario regista canadese che ancora una volta mette al servizio del grande schermo il suo eccezionale sguardo d’autore e la sua maestria nel dirigere gli interpreti per un film che appare lucidamente come la fotografia di un’epoca storica devastata da violente crisi sociali le cui radici affondano nella rovina di un sistema economico, uno scenario che ha poco del linguaggio fantascientifico cui ci ha abituati l’autore ma che descrive una situazione reale e (probabilmente) molto prossima.
Cosmopolis è il crollo di un impero, la fine di un sistema, quello occidentale, che si riflette nella disgregazione dell’universo personale di Erick Packer, un broker onnipotente la cui discesa negli inferi si compie nell’arco di ventiquattr’ore attraverso le strade di una Manhattan livida e irriconoscibile, destrutturata della sua verticalità, che Cronenberg comprime nello spazio di un’auto di lusso, una limousine che è l’universo di riferimento del giovane protagonista.
Al suo interno assistiamo ad incontri in cui vengono prese decisioni in grado di cambiare il corso della vita delle masse, appena visibili al di là dei vetri, figure indistinte e lontane che si muovono lente e che contano meno di zero per coloro che decidono le sorti del mondo. Un’insensibilità che Cronenberg, naturalmente, rappresenta in maniera eccezionale, inquadratura dopo inquadratura, complice un monolitico Robert Pattinson che incarna perfettamente l’indifferente squalo di Wall Street, colletto inamidato e scarpe lucide, che però, ai primi segnali di cedimento, alla minima imperfezione o elemento non controllabile, si sgretola come un Golem con i piedi d’argilla e, con l’andare del giorno, si scompiglia, si sporca, così come la sua limousine bianca, vero e proprio alter ego, che finisce la sua corsa in un sobborgo di periferia.
E’ il disfacimento di una nazione visto attraverso la disfatta di un suo uomo simbolo che cede sotto i colpi inferti dall’interno, che implode, e silenziosamente scivola verso un baratro senza speranza e ciò giustifica il disinteresse per il finale (il protagonista muore, oppure no? Poco importa) davanti a un’ apocalisse le cui proporzioni sono ancora sconosciute.
Cosmopolis restituisce al grande cinema un David Cronenberg al meglio di sé, un filmmaker la cui ricerca espressiva continua ad impressionare anche gli spettatori più esperti immagine dopo immagine, grazie ad inquadrature accuratamente studiate e a una fotografia magistrale. Non si può dire lo stesso per i dialoghi che appesantiscono la visione e, tradendo una troppo fedele trasposizione di quelli del romanzo omonimo di DeLillo (cosa peraltro dichiarata dallo stesso regista), risuonano ferraginosi, prolissi, densi di significati e poco fruibili -a tratti, al limite del colpo di sonno- e, a furia di focalizzare l’attenzione sulle parole, anziché rappresentare il valore aggiunto del film, finiscono per diventarne il punto debole. Tuttavia, vista la stringente attualità e l’urgenza dei temi affrontati, sembra comunque che sotto la superficie metallica e lucente sia venuto a mancare qualcosa. Con un simile materiale, e l’innegabile capacità visiva dell’autore, Cosmopolis poteva diventare un nuovo Blade Runner passando alla storia come la più grande opera mai realizzata al cinema sulla celebrazione e il funerale dell’era capitalistica. Non è così: la sensazione è quella di trovarci davanti a un capolavoro mancato. Insomma, un vero peccato.
Autore: Vittoria Romagnuolo