Sarà la terza età che avanza ma dopo Eastwood, 80 anni, anche Malick, un po’ più giovane ma anche parecchio più mistico, va a caccia dell’irrappresentabile. La morte. Fellini ci rinunciò: “Il Viaggio di G. Mastorna” rimase incompiuto perché non ci credeva per primo lui, il maestro: davanti a “quel” tema si fermò. Malick invece con l’osannato “The tree of life” si dà alla Tac escatologica. Come? Per mezzo e per fine della Natura. La realtà fenomenica è vita e quindi morte, bilanciamento degli assoluti.
Un dilagare cosmico di oceani e pianeti fascinoso ma di invadente grandeur retorica che i suoi ultras a Cannes hanno chiamato poetico. Sarà. Per chi scrive poetica è semmai la sua regia secolare. La famiglia concentrazionaria anni ’50 di Brad Pitt mette i brividi e ricorda assai le atmosfere senza scampo de Il Nastro bianco. Valida la scelta stilistica del sottinsù, con l’occhio del regista che rasoia l’erba e cattura tutto dal basso verso l’alto: ecco l’unico albero della vita che cresce, ramifica e sgambetta, non ce n’è altri. Perciò: da Palma d’oro il racconto, da Superquark tutto il resto (anche Sean Penn).
Autore: Alessandro Chetta