Moretti diventa “simpatico”. Non è da lui
Il film sul papa non poteva girarlo un italiano. Anche al più ammazzapreti di questo paese corre un brivido lungo la schiena quando alza lo sguardo sul colonnato del Bernini. Il Vaticano e la sua longa manus morale restano l’educazione fondante, inconfessabile per chi non è cattolico, delle nostre vite. Quindi, Moretti, di sinistra, agnostico, ma di passaporto italiano anzi romano, si è gettato nel cimento pastorale, si direbbe, con tatto e sensibilità, da mite, da avveduto, lasciando fuori dal set e dalla scrittura il cinismo da combattimento e la golosa misantropia che da “Io sono un autarchico” rivestono il suo cinema.
In “Habemus Papam” le schiere ecclesiastiche, pontefice escluso, sono coccolate. Cardinali bamboccioni e non arcipotenti dominatori d’anime. Un’altra idea rispetto al prete di base, il sacerdote operaio, messo in scena nel suo capolavoro, “La Messa è finita”, poco meno di trent’anni fa. Lontano dai marmi di San Pietro si poteva più autorialmente respirare, allora. Ma adesso. Con un pontefice che fa i capricci e come Celestino V rifiuta il massimo compito che la Chiesa può offrire a un suo adepto, Moretti ha immaginato che già l’idea (geniale) risolvesse da sola il film, come quegli articoli di giornale che sono soltanto il titolo brillante e il resto del pezzo è superfluo. S’è perciò accontentato. Ha concesso l’indulto a personaggi che in passato sarebbero stati fatti, con stile, a pezzi. Fortuna che Michel Piccoli è un gigante di scuola mastroiannesca e da solo porta la croce di un personaggio tanto sui generis. Ma la parte dello psicologo Moretti alle prese coi porporati sembra un cortometraggio-enclave nel film. O addirittura, come ha scritto Stefano Cappellini vista l’inconsistenza, una puntata di Don Matteo, la fiction Rai.
Ne L’Udienza (1971) Marco Ferreri volle provare lo stesso brivido: un (regista) italiano che parla del Vaticano. Fu più scaltro – o più autore –, mantenne Sua Santità fuori dal quadro in quanto irrappresentabile lasciando che a dannarsi e liquefarsi fosse solo il gregge (Jannacci e Tognazzi).
Moretti ha coraggio, ci prova, bussa alla corte del papa. Ma sceglie la commedia (quasi) pura come registro, incapace di screziarla come sa fare. La commedia è l’unica strada possibile per un italiano di fronte agli angeli e demoni del Vaticano. Chi ricorda Enrico Montesano in “Sto così cor papa” (e il papa era Philippe Noiret) o il Marchese del Grillo (e il papa era Paolo Stoppa) o i film papalini di Magni? Il sorriso era la sola modalità di avvicinamento. Stavolta la situazione è più complessa: Piccoli ci turba con le sue turbe anche se Moretti non è in grado fino in fondo di indagare la gravità del momento. L’irrisolto va bene ma non il girare a vuoto (la sceneggiatura la firma lui con Francesco Piccolo e Federica Pontremoli) stordendo il film con pasquinate banali: le partite a scopone, il torneo di pallavolo per ammazzare l’attesa, la pingue guardia svizzera nelle stanze papali, un pontefice che in mezzo secondo semina venti guardie del corpo e fa perdere le tracce.
Intimorito? Vestito invece che nudo alla meta? Non si sa, scelte sue, però stavolta cerca l’atterraggio sul soffice. E se pure il film è di razza, ampiamente sopra la media della produzione nazionale che s’inventa solo storiucce, l’ex Michele Apicella resta al palo con un’opera dai presupposti grandiosi e poi maltrattati. Blasfema? Manco un po’. I guardiani della fede cattolica possono dormire tra due guanciali (a parte Avvenire e Pontifex.it, che gridano allo scandalo, chissa perchè). Se Nanni ci diventa “simpatico” pure lui siamo fritti.
Autore: Alessandro Chetta