Di Stefano Incerti, con Toni Servillo, Salvatore Ruocco, Mi Yang, Nello Mascia, Geppy Geijeses
Uno di tutto, un minestrone di personaggi questo Gorbaciof. Non è un ottimo segnale quando si assomiglia troppo al già vissuto. Però il personaggio fortemente voluto da Servillo (suggerì lui al regista Incerti, 7 anni fa: “mi piace, ma lavoraci su”) guarda a modelli dieci e lode. Innanzitutto, e per rispetto, c’è un debito con Mikhail Gorbaciov, di cui riprende però soltanto cognome e chiazza in fronte non certo il talento diplomatico. Dopodiché, per i silenzi di ghiaccio, Gorbaciof/Servillo studia se stesso guardando alla solenne desolazione del Titta Di Girolamo de “Le conseguenze dell’amore”. Solitudini differenti, però: Di Girolamo, contabile della mafia, è costretto al confino e ne soffre; invece Gorbaciof, ragioniere a Poggioreale, al secolo Marino Pacileo, quasi si compiace della sua vita da topone emarginato.
Gorbaciof, accigliato e guardingo come il Giancarlo Giannini di “Mi manda Picone” (approposito, ma che fine ha fatto il divino Giancarlo? Se si facesse rivedere sule scene, Servillo tornerebbe numero due). Gorbaciof come versione drammatica di Er Pomata, l’incallito giocatore delle corse ippiche interpretato da Montesano in “Febbre da Cavallo” di Steno (1976) da cui riprende lo stravizio del gioco, il fiato sul collo dei creditori (“Ventresca ci sei? Ci sei”) e la criniera bisunta. Gorbaciof, naturalmente, funge anche da Bestia laddove la graziosa cinese Mi Yang, per cui perd ‘a capa, rappresenta la Bella (un po’ come ne L’amico di famiglia, sempre di Sorrentino, nell’antitesi Giacomo Rizzo-Laura Chiatti). Un altro nome alla corposa lista lo aggiunge Servillo: «Nelle movenze ha qualcosa di chapliniano. non per niente ci siamo ispirati a Luci nella città».
Se la gode Gorbaciof: fotte i soldi dei carcerati e se li gioca al tavolo da poker di un fetentissimo ristorante cinese del Vasto, mesta zona di Napoli alle spalle della stazione centrale. Sempre così, ogni giorno. Finché non pesca la carta delle probabilità (o degli imprevisti?) e si innamora della figlia del titolare del ristorante: una graziosa ragazza cinese. La corteggia, a modo suo, e vuol fuggire via con lei, via dal Vasto e dai tavoli verdi. La trama è tutta qui. Lineare, asciutta, semplice semplice.
Incerti dice di aver lavorato di brutto alla semplificazione. Lì a potare dialoghi, parole, pensieri. In modo che il risultato sia un film sparagnino ma immediato e a larghi tratti gustoso. Però poi non farcelo morire così il nostro Gorbaciof! Sparato in petto da una goffa citazione di Pulp fiction. La nostra scimmia che si crede tigre non se lo meritava.
Autore: Alessandro Chetta