di C. Mazzacurati, con S. Orlando, G. Battiston, M. Messeri, S. Sandrelli, K. Smutniak
“Dammi/ passione, anche se il mondo/ non ci vuole bene”. Basta una strofa di un pezzo di Neffa per sintetizzare l’ultimo film di Mazzacurati? Forse si. Del resto, è un film invocazione. Analizziamo. “Dammi”. Il protagonista Silvio Orlando-Gianni Dubois, è un regista in disgrazia che vuole ricominciare a dirigere. Non ha più idee e i sensi di colpa e il produttore lo braccano ovunque. “Dammi”, quindi, la forza di immaginarlo questo benedetto film, si arrovella Dubois. “Passione”: è il titolo. Patire cioè degli insuccessi, della disonestà dei discepoli-personaggi che popolano la sua, sua di Dubois, corte bugiarda, e “patire”, affannarsi, nella sacra rappresentazione delle ultime ore di Cristo nella recita del venerdì santo in un borgo maremmano. “Anche se il mondo non ci vuole bene”: Mazzacurati, prodotto da occhiolungo Procacci, vede Gianni Dubois e lo scamazza. Ne fa un Fantozzi privo anche di cinismo, che alla fine prova a rimettere i suoi peccati.
Curioso che ci sia chi, a Venezia, dov’è stato presentato fuori concorso, ha letto questo lavoro come comico, brillante. Si sorride qua e là, non lo nego, ma a stravincere è un cupo universo bozzettistico di mediocre profilo (i personaggi di Guzzanti, di Messeri, della Sandrelli). Bella la fotografia dell’Ultima cena e ottima la prova di Battiston, il cinghialone buono come il pane del cinema italiano. Ma eccessivo, mi pare, nell’idea di via Crucis profaneggiante, il peso citazionista de “La ricotta” pasoliniana, gioiello incastonato in Ro.go.pag., che nel ’63 già mise in scena una crocifissione all’amatriciana (che tra l’altro costò all’intellettuale friulano un clamoroso processo). Il fatto è che l’insieme volenteroso di centurioni, farisei, ladroni e apostoli di Mazzacurati non vale un alito del rutto poetico di Stracci, il sottoproletario ladrone di Pasolini.
Tornando a noi: tra manierismi da novella di provincia e dialoghi spesso banalotti, “La Passione” scorre senza sugo, priva di spasimi,, diciamo senza “passione”, aggrappata disperatamente alle maschere ottocentesche di cui è capace Orlando, attore che per il sottoscritto marcia tecnicamente una spanna davanti anche a Toni Servillo (vabbè, tanto si resta in Campania).
Buona però la scelta del finale aperto, irrisolto, sfumato, ultimamente un’opzione – condivisibile – di diversi registi italiani (Soldini, in “Cosavogliodipiù” e Luchetti ne “La nostra vita”). Le donne: Stefania Sandrelli, nella parte del sindaco: senza voto, anzi al di là di ogni voto, ormai lei può fare tutto anche darsi lo smalto mentre recita, è la Stefanona nazionale. Cristiana Capotondi: affettata e televisiva, lascia indifferenti. Invece Katia Smutniak, ante-lutto, è radiosa.
ps. Poi Salvatores, giurato della Biennale, ha azzardato, beccandosi i fischi: “Il cinema italiano non fa emozionare”. Come commentare? Forse le emozioni da spendere non mancano, ma la grandiosità di una narrazione che partendo da un minuscolo borgo toscano incanti il mondo con un linguaggio che oltrepassi le alpi, se non l’oceano, sembra proprio essere scomparsa. Non siete convinti? Provate a paragonare questo film italiano, sudato, onesto, con “Il Concerto” di Radu Mihaileanu, altra pellicola dal budget non milionario basata sulla storia di una sfida da vincere contando su dilettanti: sbiancherete.
Autore: Alessandro Chetta