Di Juan Josè Campanella con Ricardo Darín, Soledad Villamil, Pablo Rago, Javier Godino
Dopo aver visto “Il segreto dei suoi occhi” le prime certezze che escono fuori, di getto, sono: ma quando mai un film italiano oggi sarebbe capace di inscenare una storia così ordinata e complessa come questa? Ma quando mai gli sceneggiatori italiani anni zero riusciranno a mettere in riga le storie che gli cadono addosso in maniera meno fangosa, sciatta, al minimo sindacale (anche Virzì, Ozpetek, Luchetti, in fondo, perdono la sfida ai calci di rigore: ai loro, buoni, ultimi film sembra manchi sempre 100 lire per fare un milione e checcàz…).
Non è stato sempre così. Negli anni precedenti i 2000 ci si riusciva. I lavori di Elio Petri, Ferrara, Marco Risi, Rosi, avevano tutti gli ingranaggi narrativi a posto, puliti da orafi della scrittura, De Bernardi, Sonego, Cecchi D’Amico, Benvenuti. Maniacali lapicidi nella resa di una vicenda a finestre multiple, come quelle aperte d’istinto da Campanella in questo film. Sarà anche che le fonti di approviggionamento nazionali, ovvero scrittori di punta come Camilleri e Ammaniti, non riescono a infondere benzina alla creatività visiva. C’è riuscito, caso unico, Saviano (ma un film da un romanzo di Erri De Luca? Procacci pensaci).
Dopo lo sfogo contro l’Italia (per troppo amore), in stile catastrofe mondiali di calcio, ecco un telegramma sul film, premio Oscar 2010 come miglior pellicola straniera. Flashback, thriller, i baffetti del dittatore Videla che fanno ombra all’Argentina di metà anni ’70. L’amour en fuit dei due protagonisti, procuratore e commissario, vicinissimi e lontanissimi nel fiutare piste, nello scambio di occhiate lacrimose e concupiscenti. E un colpo di teatro finale da far accapponare la pelle, segnato dalla somma di rimpianto e vendetta: pura dinamite.
A cotè della trama finemente tessuta (anche se lunga, quasi prolissa), ci giochiamo la sagacia registica del nuovo cinema argentino – che punta l’uomo, eroe tragico – e una diavoleria semicomputerizzata: un piano sequenza allo stadio in cui la macchina da presa plana sul campo verde, va sul pallone, coglie la traversa, volteggia come la Cagnotto al trampolino, e scova il nostro commissario Esposìto tra 80mila tifosi. Chapeau.
Autore: Alessandro Chetta