“Miglior attore” a Cannes. Ma la sua prova ne “La nostra vita” non convince del tutto: deve ancora crescere
È uno spaccato oleografico, estremamete sintetico e superficiale, quello creato da Daniele Luchetti, alla seconda prova, dignitosa ma comunque fallimentare, nel racconto di storie italiane.
Il regista si propone, infatti, come un novello Germi, un Risi d’antan, un De Sica “de noartri” nello strenuo sforzo di produrre una fotografia del nostro Paese che si riduce ahilui, ahinoi, alla classica operetta didascalica, a tratti piacevole ma senza alcuno slancio critico o capacità di penetrare a fondo quanto raccontato.
“Nella nostra vita” protagonista è Claudio operaio romano padre di due bambini e di un terzo in arrivo. Il classico ragazzotto coatto (e il romano di primo acchitto è quasi fastidioso tanto è accentuato da Germano, nella sua non troppo brillante interpretazione premiata a Cannes), con la moglie carina e sempre incinta al seguito, felice quando va al centro commerciale con la famiglia e soddisfatto una volta conquistata la sacrosanta scopata serale.
Una specie di Nino Manfredi in “Brutti sporchi e cattivi”, solo che ancora giovane e in forze, con un bel po’ di figli in meno e in più, cellulare e Playstation.
Quando la moglie muore, inspiegabilmente di parto (sarà un’accusa alla mala sanità romana?), lui da buon ragazzo dei nostri tempi, invece di elaborare il lutto e vedere come far quadrare bilancio familiare e assenza dell’amata, pensa bene di mettersi in un pasticcio più grande di lui.
Mette su un’impresa edile e rischia di bruciarsi tra operai extracomunitari, debiti e inesperienza. Il tutto condito dal classico attacco ai sindacati che non ci stanno e una sana e giusta esaltazione del lavoro nero (che anche se ingiusto, in fin dei conti, è quello che salva il nostro personaggio).
Il Claudio di Germano non è altro che l’utente medio dei programmi della De Filippi, un Corona sbagliato, uno di quelli per cui quello che hai, quello che appare, conta più di tutto e che visto che la società non gli dà niente e anzi gli toglie pure la moglie, pensa bene di risarcire i figli con una marea di cose.
Neweconomy affettiva? O semplicemente aberrazione dei nostri tempi, che vuole il santo consumismo paradigma di tutto e chiave di volta della felicità.
Almeno fosse questa la teoria o la denuncia alla base del film e invece, grazie alla famiglia, fondamento di ogni buon italiano; e dell’amico pusher e quindi dei sentimenti più genuini dell’italianità, Claudio si salva e riesce pure ad eleborare il lutto e a stare finalmente coi suoi pargoletti.
Insomma il film di Lucchetti, che sarà pure il pupillo di Moretti però mamma mia sembra quello di Veronesi, è un’opera di una superficialità se non irritante, almeno preoccupante.
I francesi dovevano essere messi proprio male per aver dato un premio ad un film del genere, altre opere molto più pregnanti, ad esempio, Giorni e nuvole di Soldini, oramai hanno perso le speranze di essere selezionati alla kermesse francese. Verrebbe da pensare che sia la politica, anche se solo quella des authors, a farla da padrone sulla Cote Azur. Nulla da dire, è sempre stato così ma almeno un occhio alla qualità.
La nostra vita non è di certo un film pessimo: un buon lavoro di scrittura, si affianca a una bella scelta del cast, tutti molto bravi e veritieri, a partire da Raul Bova e Luca Zingaretti; ad un montaggio ben ritmato e cadenzato da una colonna sonora azzeccata.
Unica nota discordante il premio a Germano, che non merita ancora un riconoscimento di questo calibro. La sua è una recitazione ancora troppo affettata, esagerata: un pò come lo scemo di Come Dio Comanda, troppo accentuato, il suo Claudio è così tanto coatto da darla a bere all’estero ma a noi da qui, puzza troppo di finzione
Autore: Michela Aprea