Con ” A serious man” i Coen tornano al top
Con Woody Allen condividono le radici ebraiche, come lui stanno iniziando a girare un film all’anno, ma chissà se i fratelli Coen, con il loro nuovo “A Serious Man”, seguiranno il regista newyorkese nella schiera degli self-hating-jews. Il dubbio rimane perchè l’ultima fatica di questi registi siamesi è davvero esemplare in quanto a equidistanza tanto dall’ironia caustica-ateistica quanto dalla critica affettuosa al desueto senso di appartenenza verso il proprio gruppo religioso.
Viene da pensare al film di Tarantino, un non-ebreo, che sceglie di far deflagrare la fedeltà storica della narrazione nella maniera più spettacolare : ammazzare i nazisti, con forza uguale e contraria, dando sfogo ad un atavico desiderio sonnecchiante nell’inconscio del popolo eletto da Dio. Il paragone arbitrario ed inconsistente si tiene solo perchè sia i Coen che Tarantino hanno iniziato con un prologo, suddividendo poi in capitoli il film. Le somiglianze però finiscono presto, non appena si leggono le reazioni della comunità ebraica che, solo nel caso di Inglourious Basterds, si è espressa per commentare un così tanto folle revisionismo. Per i Coen non è successo e difficilmente succederà. Criticarli sarebbe prendere le distanze da un Giobbe o un Qoeleth, da una storia di dolore di immediata filiazione biblica. Vederci citazioni antico-testamentarie è l’analisi più evidente, ma con la Bibbia bisogna andarci con i pieni di piombo perchè, se è vero ciò che attesta la narratologia, sarebbero poche le opere a non avere debiti verso il libro dei libri.
“A Seriuos Man” è un film sulla comunità ebraica, ma i Coen vogliono universalizzare per superare la loro contingenza biografica, sfociando nel racconto dell’esistenza a cospetto della Divinità tout court. Il protagonismo di un personaggio, sottolineato dal titolo, serve proprio a personalizzare un film che minacciava di essere un affresco etnico. E questo pericolo è scongiurato. Della vicenda raccontata (lo sfascio esistenziale del professore Larry Gopnik) colpisce la cura per i dettagli, la tensione continuamente alimentata da una sceneggiatura sempre più esagitata. In tutto ciò il sodale Carter Burwell asseconda con la musica questa continua palpitazione, propria di un giallo se solo non si stesse raccontando di una vita normale e seria. Non c’è serietà né tono canzonatorio, così come è difficile scegliere tra l’etichette di genere.
Le atmosfere da sogno ben camuffate, così perfettamente integrabili nel corso narrativo della realtà da incoraggiare, con questa ambiguità, quella dicotomia di registro che mai riposa definitivamente sul lato della “black-comedy” o del “drama”. Fatta eccezione per “No Country for old men”, sembra di assistere al primo film serio dai tempi de “L’uomo che non c’era” (lì veniva citato Heisenberg, qui c’è la matematica), ma una linea di ascendenza diretta parte anche da Burn After Reading.
La similitudine corre su quella assurdità che i Coen usano per costruire i propri racconti, che nelle ultime due pellicole pare essersi condensata con estrema intensità. Per finire, la sventura meno desiderabile del professore Gopnik è forse anche più inquietante del responso medico ancora sconosciuto: lui sente di vivere una vita invidiabile, nonostante sia in balia di tutto l’esistente, quando il fratello piagnucolando lo addita come un paradigma di successo e realizzazione. E forse questo che è più difficile accettare e che meno si accorda alla massima posta in apertura del film: “Ricevi con semplicità tutto ciò che accade”.
Autore: Roberto Urbani