di Francesca Comencini, conMargherita Buy, Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo
E’ difficile, quando non impossibile, raccontare la bellezza di un film come Lo spazio bianco di Cristina Comencini: un dramma tutto femminile, sospeso e rarefatto, che rappresenta – ad essere obiettivi – il meglio della produzione filmica italiana di questa stagione.
Un ottimo lavoro di sceneggiatura, insieme alla toccante e trattenuta interpretazione di Margherita Buy (candidata alla Coppa Volpi durante l’ultima edizione della Mostra di Venezia), alla bellissima fotografia di Luca Bigazzi e alla composta regia della Comencini fanno de Lo spazio bianco un film equilibrato e perfetto, privo di sbavature, lungaggini e punti morti. Come ha notato Adriano Ercolani su Hideout, “la Comencini riesce a trovare la verità di sentimenti e situazioni attraverso una regia formalmente preziosa, attenta ai dettagli, che all’eleganza della composizione dell’immagine unisce il calore di situzioni e caratteri”.
Tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice napoletana Valeria Parrella, sceneggiato dalla stessa Comencini e da Federica Pontremoli, Lo spazio bianco è il racconto di un’attesa esclusivamente femminile: quella della protagosta, Maria, nomen omen di un’insegnante di italiano sbarcata per caso nel Paradiso/Inferno della città di Napoli e obbligata ad aspettare sul Golgota di un’ospedale, la nascita- resurrezione della sua bimba concepita per caso. Accanto a lei, madri per caso – troppo giovani e infantili, troppo vive e sconsiderate – condividono con Maria la speranza e il dolore dell’attesa.
Seguiamo la protagonista, apparentemente composta e imperturbabile, prima nella sua solitaria vita di donna ultratrentenne troppo sola, intellettualmente libera ed emancipata e poi, nel vuoto emozionale di un’attesa extra-uterina. Quello che la maggior parte delle donne vive dall’interno, lei è costretta a vederlo attraverso il filtro del gelido vetro di un incubatrice. È costretta a vedere un esserino dalle fattezze antropomorfe, livido e incapace di respirare, una cosa che non riesce neanche a nominare e che nel tempo, durante lo spazio bianco che la separa da una maternità reale, imparerà ad amare.
Attorno a lei – ma inizialmente la protagonista sembra non curarsene – un infinito carosello di personaggi memorabili e di vite in qualche modo spezzate, come le dita di uno dei suoi alunni alla scuola serale, l’ex falegname Gaetano (il bravissimo Salvatore Cantalupo)
Sullo sfondo, un ritratto sublime e a tratti oleografico di Napoli, dei suoi volti, dei vicoli stretti, i balconi e le architetture violate. Una Napoli bellissima e struggente, unico e possibile set ideale dove la storia di Maria e della sua attesa potesse prendere forma e materializzarsi in modo così profondo e toccante. Napoli, è il ventre sul quale si adagiano in maniera equilibrata e perfetta tutti gli elementi del film, e, come in una danza surreale, si muovono i personaggi. Certo, come ha osservato Valerio Caprara dalle colonne de Il Mattino, alcuni scorci un po’ troppo presepiali e ammiccamenti scontati, potevano essere risparmiati allo spettatore – Caprara parla di ambientazione gravemente convenzionale e un concerto di comprimari eccessivamente ammiccante: la vicenda si snoda, infatti, in una Napoli presepiale, cullata da un folklore alternativo quantomeno datato – ma la loro “peccaminosa” presenza non è riuscita comunque a compromettere la forza viva e pulsante del film.
Uno dei migliori e dei più importanti della stagione e che, tra l’altro, potrebbe anche essere considerato una sorta di manifesto postmoderno del femminismo per il ritratto che Maria fa della donna contemporanea: ultraquarantenne, sola, tendenzialmente colta e amante delle arti, sentimentalmente ed economicamente precaria. Un grande contributo alla riuscita e alla bellezza del film è dato soprattutto dalla mano di Bigazzi che, con grande maestria, ha saputo rendere le atmosfere gelide e rarefatte della sala incubatrice, per poi alternarle ai colori caldi e un po’ vintage degli incontri amorosi di Maria con Pietro (il padre mancato di Irene) e alla fotografia più realistica e naturale della vita consueta della protagonista a scuola e per le strade di Napoli. Bellissima la colonna sonora, dove le interpreti femminili la fanno da padrone insieme alle musiche originali di Nicola Tescari.
Autore: Michela Aprea