di Maoz Shmulik, con Oshri Cohen, Zohar Shtrauss, Michael Moshonov
La sala diventa anch’essa un abitacolo. Chi sta guardando con me “Lebanon”, Leone d’oro a Venezia 2009, in questo momento si ritrova, come me, nel carrarmato. Assai bravo è il regista, alla sua opera prima (gulp!), Maoz Shmulik, a tappare bene il varco d’uscita per impedirci di scappare-prendere una boccata d’aria-respirare-andare a comprare le cipster-fare pipì tra i campi o tra le rovine del middle east. Se non avete visto il film non state afferrando questa descrizione di claustrofobia: Lebanon, eccola svelata, è interamente girato, racchiuso, all’interno di un tank israeliano. La macchina da presa non si sposta da lì.
La fotografia è luci di segnalazione su buio, l’azione motoria degli umani è circoscritta a tre quattro movimenti; la colonna sonora naturalmente cigolante, e poi sismica quando la ferraglia si mette a correre, per modo di dire. Le quattro vite dei soldati sono inscatolate, strizzate, e così i dialoghi e i pensieri. Compressi. Militari di Tsahal sì, ma il meglio lo danno quando fiocca nel carro un barlume di umanità, o meglio di giovinezza. Saranno pure “uomini d’acciaio”, come recita un motto stampato sulle pareti del tank, ma – da qui il lavoro comparativo del regista – anche carne fresca, teenager pieni di spermatozoi, sparati verso il macello nella terra dei limoni. Era la guerra dell’82, qualcuno ricorderà “Bombardieri su Beirut” salmodiata dai Cccp. Conflitto rimosso per più di vent’anni che adesso viene a galla. “Valzer con Bashir” affronta con dolore il medesimo argomento, con l’unica differenza che nel cartoon gli “attori” lottano fuori dal carrarmato.
La forza del film sta nella prospettiva ridottissima – la scatola – che accorcia il modo di comprendere il mondo esterno. I fanti ne hanno una visione ridottissima, sono impreparati a capire la guerra (un soldato non riesce a sparare, un altro se la fa sotto). Telecomandati, già sconfitti. In trappola: non tanto a causa dei nemici, invisibili all’occhio, molto meno equipaggiati ma furbi e indomiti, quanto dell’inspiegabile volontà di aspettare il peggio, di non fuggire. Anche lo sguardo degli spettatori, esausto del carrarmato, vorrebbe scappare. Però non lo fa, si adatta alla condizione, aspetta il peggio. Luis Buñuel, volando certo più alto, mise in scena una trappola simile – per osservatori e osservanti – nell’Angelo sterminatore. Ci manca l’aria. Fino a quell’oceanico campo di girasoli. Il paradiso?
Autore: Alessandro Chetta