Inglorious basterds “accende” il cinema: capolavoro
Quei due sono morti, eppure sul grande schermo sopravvivono. Contemporaneamente vivi e morti. Giacciono straziati a terra, in sala proiezione, lei, ebrea francese scampata al cacciatore di nazisti, lui, soldato semplice diventato eroe di guerra, promosso agli onori del nuovo cinema tedesco. Tarantino li guarda e schitarra un inno alla potenza del cinema, protesi ad infinitum del nostro fantasma, in agghiacciante canone Fritz Lang, mentre il calco originale deperisce come Dorian Grey. E’ solo uno dei tanti spunti suggeriti da “Inglorious basterds”, in italiano un fiacco “Bastardi senza gloria”. Uno dei pochi film (mainstream, intendiamoci) che visto da venti persone diverse partorisce venti sussulti – e recensioni – diverse. Il sottoscritto prova a puntare sulla autenticità (in)gloriosa ma immortale della non-vita di celluloide. The woman jew, il faccione sullo schermo che sopravvive alla Guerra, fa un sol boccone dei nuovi vincitori e dei nuovi vinti dimostrando, complici le fiamme, l’infernale prolificità metempsicotica del cinema. Mors tua vita aeterna mea.
Poi ci sarebbe da parlare del golpe ebreo sul corso della Storia, che resta un’idea estremamente originale: come fare un film sulla guerra fredda vinta dai russi. Sì sì qui trionfano proprio gli ebrei, creando per la seconda guerra mondiale un finale diverso dall’illusione di “Train de vie”, opera dove in epilogo il pigiama a strisce del lager squaglia ogni grumo di fantasia sulla Vittoria giudea.
Discorso a parte sui dialoghi fiume, benedetta logorrea del regista su ogni pellicola. Raccomandabile soprattutto il “colloquio” iniziale, tra il bifolco e l’SS. Parole sibilanti, in due lingue, che salgono di intensità fino a diventare insostenibili. Si suda. Ed è molto meglio sudare ascoltando tutto il film in originale, visto che si alternano tre idiomi diversi (si parla molto tedesco, molto francese, molto inglese); e se i sottotitoli vi disturbano, pazienza, fate uno sforzo. Il tono baritono di Brad Pitt-Aldo l’apache (“We gotta kiiiiill the nazi”) va assimilato nella sintetica schiettezza della lingua anglosassone, visto che il venerato doppiaggio italiano, morti i grandi vecchi, ultimo Lionello, si fa sempre più inodore: e questa pellicola ne è un esempio. Così come l’approssimativo italiano da mangiaspaghetti della scena alla première nazista con l’Apache e soci, nel doppiaggio viene stravolto: presentati come siciliani che dicono “Mieezzica”: in realtà l’effetto comico è dato, in originale, da Pitt che si sforza di sbiascicare qualcosa in italiano di fronte al cacciatore di nazisti, che, sorpresa!, parla pure la lingua di Dante.
Ogni lavoro di questo regista demonio è un evento. Tarantino riesce, ma come fa?, a centrifugare la volgarità della maniera pop in cui l’arte moderna è irriducibilmente intrappolata, restituendola degna e pulp. Anche quando si trova, come in questo caso, a fronteggiare le difficoltà di un film in costume. Infine: trovatemi nella sterminata filmografia sulla Shoah un personaggio più inquietante del cacciatore di nazisti pensato da Tarantino. Difficile, si può avvicinare come tensione elettrica giusto il feldmaresciallo Ss del “Pianista” di Polansky: ma in “Inglorious basterds” quel faccia di bronzo di Christoph Waltz anche quando beve il bicchierone di latte in un sorso o strascica la panna sullo strudel mette, vi giuro, più ansia dell’esorcista.
Autore: Alessandro Chetta