di Giuseppe Tornatore con Francesco Scianna, Margareth Madè, Nicole Grimaudo
Non osate chiamarlo kolossal, potreste tirarvi dietro la furia di Giuseppe Tornatore, forse il più hollywoodiano dei cineasti italiani (chi altro avrebbe potuto mettere in moto una produzione tanto colossale e dispendiosa?), riuscito a strappare un’Oscar nell’89 con Nuovo Cinema Paradiso.
Il regista – durante la presentazione del film in concorso a Venezia e ora in lizza come miglior film straniero agli Academy Awards – ci tiene a precisare che la sua epopea sicula – che abbraccia la storia d’Italia dai primi del Novecento ai giorni nostri – è una commedia, nient’altro.
Certo, qualche risata, stretta tra i denti la strappa, ma Baaria più che una commedia sembra la brutta copia di troppi film: dal Novecento di Bertolucci al Nuovo Cinema Paradiso dello stesso Tornatore con lievi sentori – anche e addirittura – dell’insuperabile C’era una volta in America di Sergio Leone.
Il tutto sorretto da un lavoro di scrittura scialbo (sembra di assistere alla solita fiction in tv), un’immensa carrellata di attori televisivi e cinematografici inutile (da Ficarra e Picone a Vincenzo Salemme, passando per Beppe Fiorello fino agli incomprensibili cammei di Laura Chiatti e della Bellucci) salvato a stento dalla pomposa fotografia di Enrico Lucidi e dalle musiche di Ennio Morricone.
Ricordi personali e suggestioni familiari si rincorrono lungo la schiena dell’enorme pachiderma di celluloide messo in piedi dal regista originario della cittadina di Bagheria (alle porte di Palermo).
Città che avrebbe dovuto essere protagonista della vicenda, accogliendo al suo interno volti e vicende che si dipanano intorno alla storia di Peppino – scansafatiche allevatore di vacche comunista immolato al sacro fuoco della politica e dell’impegno civile – e che invece resta incellofanata nel cartongesso e nel truciolato della copia conforme all’originale messa in piedi dalla megaproduzione firmata Medusa in Tunisia.
Baaria solletica i più bassi istinti dell’uomo comune, basato com’è su clichè e vicende e immagini didascaliche lasciando allo spettatore italiano il dubbio che l’intento del regista fosse più che quello di fare un film personale e a tratti autobiografico, quello di creare un mostro fatto su misura dei gusti del pubblico straniero.
Una pura operazione di marketing indirizzata unicamente alla conquista del mercato (il film è primo in classifica in Italia con un incasso di oltre 5milioni di euro) e alla vittoria della celeberrima statuetta d’oro americana ma che lascia lo spettatore sconfortato e non solo davanti allo sgozzamento di una vacca (tanto rumore per nulla, anche se ha comunque conquistato una denuncia dalla Lega Antivivisezione) ma di fronte alle concessioni fantastiche che inspiegabilmente l’autore si fa. Come nella scena iniziale del film quando il piccolo Peppino (spudoratamente troppo uguale al povero Totò Lo Cascio) lanciato in una corsa sfrenata per guadagnare 20 lire, si libra improvvisamente in volo per poi concludere la sua corsa alla fine di 2 h e mezza d’interminabile epopea.
Autore: Michela Aprea