di Costa Gavras, con R. Scamarcio, J. Köhler, U. Tukur, A. Duperey
Nelle prime battute del film, altri converranno, Scamarcio sembra Bingo bongo. Cioè si ritrova, da naufrago immigrato clandestino, in un resort per ultraricchi di Creta e non parla una parola della lingua locale. Da qui le sue mossette da Celentano scimmia. Rubacchia giacche, pantaloni, foulard, vestaglie di raso che gli capitano sotto tiro allungando braccia orangheggianti; e poi, scattoso, un po’ ebete, fa solo sì o no con la testa. Bingo bongo, ve l’avevo detto. Lasciandosi alle spalle però questa inroduzione da filmazzo di Pasquale Festa Campanile, il film di Costa Gavras si apre e sviluppa raccontando l’odissea di chi, migrante, diventa un’entità fuorilegge, un clandestino. Con tutta l’ansia e il fiatone di tirare i dadi e farcela. Un personaggio dal passaporto non svelato (forse un’ex repubblica sovietica), vagabondo, ingenuo, in ostinato viaggio verso l’Eden, l’Ovest, stavolta convenzionalmente chiamato Parigi.
Al cinema, da almeno vent’anni, l’idea del pellegrinaggio dei nuovi immigrati sospinti dalla globalizzazione – dal ’90 – è stato affrontato da tantissime angolazioni. Cominciammo in Italia con “Lamerica” degli albanesi (Gianni Amelio, 1994), per arrivare un anno fa al toccante “Quando sei nato non puoi più nasconderti” (Marco Tullio Giordana). Anche se la “migrazione” più celebrata resta finora quella firmata Winterbottom. Il suo “Cose di questo mondo”, Orso d’oro nel 2002, aveva meglio di altri reso l’idea del terno al lotto che gioca col destino il fuggiasco che abbandona la propria terra per l’Europa.
Il blasonato regista greco si muove sul medesimo binario. Toccando corde meno documentaristiche e più trasognate, “surrealiste”. Il suo Elias vibra di stralunato stupore per un posto mai visto prima e neppure immaginato (nudisti spiaccicati al sole; milionari in bermuda che giocano a dare la caccia, vera, ai clandestini; camionisti gay).
Nel piccolo affresco c’è spazio per il romanzo di formazione. Scamarcio/Elias è un pinocchietto che combatte con le forze della natura; coatto boccalone con i vari gatto e volpe, proteiformi, che ritrova sul cammino. Un ragazzetto rigido fin quando può nel difendere il suo corpo: significativa è in tal senso l’insistenza narrativa di Gavras sulle continue insidie sessuali. L’immigrato è riproposto come oggetto spoglio “ufficialmente” di tutele e, pertanto, violabile.
La prova del protagonista? Obiettivamente si può dire che a scegliere nella covata nostrana, c’era per quel ruolo forse qualcosa di meglio (Germano? Santamaria? Favino?). Ma Gavras non è cineasta local. Ha occhio che si spinge oltre l’alveare gossipparo. Scamarcio sarà pure nel minuscolo Stivale italiano idolo da teenager. Però il suo viso appuntito, triangolare, bruno e strafottente, da zingaro fortunello, ha disegnato in testa al regista di “Z” l’archetipo del migrante mai patetico. Colui che alla fine, di riffa o di raffa, con un po’ di magia, tocca la meta.
Autore: Alessandro Chetta