Nel libro “Bambi contro Godzilla” David Mamet critica la procedura hollywoodiana della produzione cinematografica che non presuppone basi artistiche (sceneggiatura valida, tanto per cominciare) nella realizzazione del film. L’obiezione consiste nell’accusare una inconsistenza di spunti e idee soppiantata invece dalla voglia di mostrare al pubblico lo sforzo profuso, i capitali impegnati, la grandezza del “prodotto” offerto. Discorso che diventa sociologico quando Mamet spiega il successo di date pellicole teorizzando una sorta di spirito patriottico americano quale ricettore del messaggio, inviato quasi subliminalmente dalle major. Tale messaggio mostra la grandeur nazionale, il poter spendere soldi in film non eccellenti ma che sono pur sempre prove di budget smisurati.
Lo “spettatore americano” godrebbe di far parte, in qualche modo, di tale eccellenza collettiva e paga il biglietto. Nelle sale ora, da noi, c’è Hancock di Peter Berg. Alla prima visione il film pare invece lo scheletro di un’idea, a dispetto dell’accusa di Mamet che vuole l’assenza di idee. Hancock non solo mostra un lavorio peculiare di scrittura, ma testimonia l’impianto drammatico del film. L’idea, quella che i produttori vorrebbero riassumibile sul dorso di un pacchetto di sigarette, sarebbe: un supereroe con problemi di alcolismo (ri)trova l’anima gemella, seguono complicazioni. Resoconto ineccepibile ma che non rende appunto la visibilità dell’ingenza produttiva irrompente ventiquattro volte al secondo. Si evince che Hollywood è la sede principale della libertà assoluta di realizzazione contenente in nuce e in potenza, la libertà creativa.
Più che vedere, basta “assistere” alla serie di catapultamenti di automobili, alla disattenzione della progressione drammatica basilare per cogliere il campo d’azione del film, il suo esimersi dagli obblighi narrativi. Oltre il regista, il produttore. Più di Peter Berg è molto più visibile infatti Michael Mann, produttore del film, presente in un cameo per ribadire e incarnare l’importanza dei capitali e dei finanziamenti (per ironia interpreta un business-man di un colosso farmaceutico che rifiuta la richiesta di fornire gratuitamente medicinali ai bisognosi). Proprio lui, Mann, che riesce a sfruttare la macchina Hollywood rendendola compatibile con l’autorialità, in barba a Mamet. Hancock è una summa che unisce l’action movie con il film drammatico, passando per toni quasi da melodramma; aggancia il registro da troiata alla tensione nobile delle scene madri. Spinge l’ acceleratore con momenti paradigmaticamente crassi, volgari, insignificanti rendendo più evidente l’esenzione da ogni passaggio drammatico obbligatorio (esempio, il villain uncinato di cui si ignorano le pur banali significazioni, i motivi del suo agire). Per tanto il film, non solo nel suo aspetto, è sbrigliato, prosegue per tappe di spettacolarità, si erge unicamente sull’idea catchy di un vigilante poco socievole.
Da ultimo, ma in perenne primo piano, c’è l’incedere da videogame, simile a “click” di Frank Coraci, “Trasformers” di Bay, “Spider-man 3” di Raimi che rappresenta questa voglia di offrire facile immedesimazione allo spettatore stordendolo con la molteplicità delle possibilità produttive; spunti da situation comedy potenziati grazie ad una macchina cinema grandiosa; lo spettatore è un giocatore di una console, libero di poter conseguire obbiettivi prefissati e percorrere tragitti unici come se fossero preferiti ad altri.
Autore: Roberto Urbani