Può un panda goffo e mollaccione diventare il più grande guerriero di kung fu della millenaria storia cinese? In sintesi, questo è il fulcro intorno al quale si sviluppa “Kung fu Panda”, l’ultima opera partorita dalla Dreamworks, colosso americano, di spielberghiana derivazione che a colpi di kung fu ha colpito una platea di oltre 2 milioni di italiani incassando ben 4 milioni di euro nel primo weekend e poco più di 14 milioni in appena due settimane.
La vicenda, si apre con un sogno: i mitici scimmia, mantide, cicogna, serpente e tigre (che più tardi ritroveremo tutti rigorosamente in versione giocattolo neanche fossero i power ranger) combattono disegnando mirabolanti traiettorie atletiche colorati di tinte squillanti e tratti veloci e scattanti. Ma la loro grazia può nulla senza la forza del grande guerriero panda: il più forte, il più agile, il più leggero, il più pesante, il più mitico, il prescelto.
Film quasi completamente realizzato in Computer Grafica (tranne la splendida sequenza iniziale – quella onirica per intenderci – realizzata in 2 D da James Baxter, artista che, tra gli altri, ha al suo attivo la supervisione di capolavori dell’animazione come Madagascar e Shrek 2) Kung fu Panda si rivela l’ultima frontiera del film di animazione mondiale. Volevano riprodurre la seta, alla Dreamworks, nelle sue mille sfumature, i suoi riflessi, i colori cangianti… un’impresa impossibile fino alla nascita di Po e dei suoi amici.
Un’impresa colossale che ha impegnato più di 500 persone per un totale di un milione di ore di lavoro, senza contare lo sforzo della macchine: per elaborare e creare le scene sono state schierate 400 workstation Hp ed è costruita la più grande server farm del mondo al servizio del cinema d’animazione, 24 milioni di ore impiegate soltanto per il rendering.
«Kung Fu Panda – spiega Kate Swanborg, Technology Executive per DreamWorks Animation, in un’intervista rilasciata al Sole 24 Ore – è il frutto di un impegno tecnico enorme attuato con il concorso di Hp, all’interno della partnership tecnologica che ci lega dal 2001. Kung Fu Panda – dice – rappresenta la frontiera dell’animazione tridimensionale: non per orgoglio di parte, ma questo film porta sullo schermo un livello di dettaglio e di naturalezza dei personaggi mai vista prima».
Di Mark Osborne e John Stevenson, Kung fu Panda nonostante le grandi doti tecniche sottolineate dalla Swanborg al Sole 24 Ore, non riesce a pareggiare i precedenti successi firmati dalla Dreamworks. Manca di ritmo e a dire il vero, anche di freschezza: sembra un po’ troppo seriosa questa storiellina, in fin dei conti fin troppo ovvia, che pare ripercorrere pedissequamente i precetti della più dogmatica tradizione disneyana.
Nulla a che vedere con Shrek 1, 2 e 3 e soprattutto, con le grasse risate scatenate da “Madagascar”.
Grande assente la musica: non ce n’è per tutta la durata del film fino ai titoli di coda, quando finalmente, “parte” la cover di Kung fu fighting (intramontabile pezzo ’70 firmato da Carl Douglas), reinterpretata per l’occasione da Cee- Lo Green e Jack Back (che nella versione americana dà voce a Po).
Una curiosità: il film – nelle sale italiane dal 29 agosto e presentato fuori concorso durante la 61° edizione del Festival di Cannes – è stato nei mesi scorsi oggetto di un piccolo scandalo: l’artista visivo Zhao Bandi, visivo Zhao Bandi, celebre per l’utilizzo nelle sue opere della figura del panda nelle più fantasiose maniere, ha citato in giudizio la Dreamworks, per aver «offeso» il simbolo nazionale della Repubblica popolare.
Zhao Bandi, non riusciva ad accettare il fatto che il padre di Po, cioè di un panda, animale sacro in Cina ma ciononostante, in via di estinzione:
a)fosse un papero (geneticamente impossibile);
b)avesse gli occhi verdi (colore che in Cina portasfortuna).
Autore: Michela Aprea