Eastern Promises, l’ultima opera di David Cronenberg, è un capolavoro assoluto.
Completamente fuori dal genere (come del resto, tutti i film del regista canadese), è un film assolutamente di genere. Sul filone del gangester movie, “La promessa dell’assassino” (infelice ri-nominazione italiana) raccoglie a piene mani dall’immaginario popolare, l’idea della mafia russa per renderla materia.
È materia che scivola lungo le membra, facendo vibrare ogni più piccolo recettore. È materia che si blocca sulla retina e incanta…
E non si tratta solo di corpi, espressioni, sangue e violenza.
È come se Cronenberg riuscisse a parlare direttamente col subconscio. Distrae la ragione col racconto. Un racconto filmico classico e ineccepibile, estremamente lineare, facile da seguire. Con qualche colpo di scena qua e là, delle risate, una strage efferata, sguardi languidi, scene di nudo e seminudo, Vincent Cassel nella parte di un tipo ambiguo e assolutamente posticcio, qualche puttana qua e là, bambini, dolore, paura.
Lo spettatore segue, abbassa le proprie difese e “tac”. Fregato! Penetrato nell’antro più buio e isolato della mente, non bastano mesi per sciogliere l’incanto o il delirio e il film diventa un pensiero fisso, una specie di droga.
È la traccia di Cronenberg, un segno lungo il corpo indelebile, come i tatuaggi di Nikolai, come l’aborto di Anna, come una lama che segna la distanza tra un capo e l’altro del collo.
In un’esplosione di sangue e violenza, di sospetti, di paura, Cronenberg tesse la sua tela per intrappolarci.
Impalati sulla poltrona. Inermi come le vittime di un ragno scientifico e spietato.
È una carneficina dell’animo “La promessa dell’assassino”. Il volto e il corpo di Viggo Mortensen tatuato nel sostrato più profondo del nostro essere.
Una traccia indelebile, atroce eppure meravigliosa.
Autore: Michela Aprea