Con la lucidità registica del maestro di cinema Milos Forman non ha fatto de “L’Ultimo Inquisitore” uno smorto biopic del grande Goya riuscendo a scongiurare, nello stesso tempo, anche l’inerzia dell’affresco storico.
Questi sono i due pregi del suo ultimo lavoro che per il resto si dimostra soltanto una operazione del tutto inutile. Nessuna furia creativa (non dovrebbe esserci per forza, ma in questo caso forse avrebbe attizzato la fiammella narrativa inapprezzabile), una sceneggiatura piatta ed incolore, cenni storici degni di un manuale. Purtroppo tutto sembra preposto ad uno scopo quasi didattico a partire dalla messa in scena invisibile che omette ogni possibile virata interessante. Un’opera della vecchiaia un po’ stanca il cui valore si può ritrovare nelle interpretazioni che sono unanimemente un ossequio ai canoni del film storico: la Storia subentra nel plot, lo regge nelle svolte decisive, ma rimane sempre vessata da eventi minimi e, per questo, lo spettatore ne potrà trarre solo una visione affrettata ed insignificante. Infatti se Forman ha deciso di scomparire da regista (non eclissarsi, ma assentarsi) lascia di fatto che emergano svariate nullità strutturali.
Lo spessore drammatico è ridotto al minimo, pregiato solamente da qualche trovata come la confessione forzata del prelato Javier Bardem che, sotto tortura, dichiarerà di essere discendente diretto di una scimmia dimostrando l’inattendibilità delle confessioni ottenute con la coazione. Rimane il grande dubbio sui decani del cinema, sul fatto che l’età può infiacchire il talento o potenziarlo con l’esperienza (anche “Find my guilty” di Lumet lo proponeva un anno fa). Basti pensare al testamentario “Die 1000 Augen des Dr. Mabuse” film stupendo col quale Lang si congedava tratteggiando la situazione mediana dell’uomo, spettatore e oggetto dell’indiscrezione, mittente e destinatario dell’attenzione dell’occhio (premonizione forsennata di youtube?). Basti pensare ad Eyes Wide Shut. Dei fantasmi di Goya invece viene magicamente abolita la figuratività, finiscono per essere un elemento farraginoso che sa di nota al testo.
p.s. la sordità di Goya, buon elemento per lo script, è eluso inelegantemente grazie all’apporto impacciato di un interprete: proprio quando il silenzio stava per fendere la sala!
Autore: Roberto Urbani