Non ricordo quasi mai i miei sogni. E ad essere sinceri, non ricordo quasi nulla di ”L’arte del sogno” di Michel Gondry. Solo una dolce sensazione di estasi infantile.
Quando tutto ti sorprende e le cose ti sembrano più grandi di quello che riesci a percepire con gli occhi, con le orecchie, con la mente.
Gondry ci porta sulle montagne russe, sospesi a metà tra il cielo e la terra e sulla groppa di una soffice nuvola (o di un cavallo di pezza) ci accompagna lungo le lande di un amore semplice. Un amore scevro da sovrastrutture, sicuramente folle e a tratti maniacale, ma dolce e tenero come quello di due fidanzatini alle materne.
Stephane (Gael Garcia Bernal – nella foto a sinistra insieme al regista) e Stephanie (Charlotte Gainsbourg): clip, clap la coppia è qua.
Lui torna a Parigi dopo la morte del padre, lei fitta l’appartamento accanto.
Senza neanche guardarsi negli occhi, Stephane è già travolto dal mondo di Stephanie.
È già amore. È già musica. È già cinema, delirio, sogno…
Stephanie è il sogno di Stephane anche quando lui ancora non lo sa: quando le lascia un bigliettino sotto la porta, nudo. Per poi andarlo a riprendere agghindato con una tragica vestaglia a fiori.
Quando il sogno sostituisce la realtà in uno studios di cartone; durante i suoi “one man show”; quando litigano, quando soffrono, quando giocano.
Stephane e Stephanie come tutti gli innamorati giocano col tempo: “tic” un secondo indietro nel passato, “tac” un secondo avanti nel futuro e al centro, nel presente, sempre e solo loro.
È la magia del sogno che rende tutto possibile e che quotidianamente si scontra con la dura realtà.
Quella con cui dovrà scontrarsi anche Gondry: l’Arte del sogno è un film fantastico, è un trip, per qualcuno già una droga, ma finito l’effetto cosa lascia?
C’è qualcosa che manca al film. E non è poesia, genialità, bravura degli attori o… semplicemente, incapacità dello sceneggiatore (Gondry stesso). “L’arte del sogno” è un’opera incompiuta.
Come quei sogni interrotti da un brusco risveglio, da un frastuono o da un dolce bacio.
È un’opera in nuce, in stato embrionale, una eterna scoperta, un ritorno al passato. A quella meraviglia semplice che solo i pionieri del cinema sapevano creare.
Gondry conosce bene l’arte del sogno, come la conosceva il grande Meliès.
Inutile dire che è a quest’ultimo che dobbiamo l’invenzione della magia del cinèma.
Troppo facile pensare che Gondry ne sia un degno erede.
Una curiosità: presentato al Sundance Festival e fuori concorso al Festival di Berlino (2006), la storia di Stephane e Stephanie è ambientata in un palazzo di Parigi dove il regista ha realmente abitato e dove tutt’ora risiedono ex- moglie e figlio.
Autore: Michela Aprea