Se il cinema americano è da sempre considerato l’establishment della celluloide, il tempio incontrastato delle cerniere narrative viste e riviste (ma non per questo meno esaltanti e sapide delle grammatiche prevedibili del cinema europeo, del cinema in generale come recipiente sconfinato di forme artistiche già viste, ma proprio per questo evocative: ‘nulla si crea e nulla si distrugge nelle concezioni tramiche’, così recita un saggio proverbio della produzione artistica) si deve in qualche modo godere del nuovo film di Michael Mann, “Miami Vice”. Un progetto, subito successivo a quello di “Collateral”, il cui set ha incontrato la furia distruttiva di Katrina, s’è imbattuto in sparatorie nelle location domenicane che hanno procrastinato la fine della realizzazione e gonfiato il già pingue budget. La produzione è arrivata, infine, sui 135 milioni di dollari. La funzione azzerante, propria di un uragano, si avverte nell’incedere funereo della pellicola, nel passo furibondo di un film che si sbarazza dell’iconografia del poliziesco per approdare ad uno stato laconico della sceneggiatura (non a caso firmata dallo stesso Mann). Nella angusta storia di due poliziotti di Miami, per giunta già prelevata indebitamente da un territorio televisivo, gli arrugginiti precetti del genere (Noir?) si sfaldano con disinvoltura per lasciare posto alle derive notturne, alle fasi di allucinazione proprie di un realismo incredibile (nel senso letterale del termine), che non pretende di ammansire con patinato documentarismo. Inizialmente “Miami Vice” trasmette la freddezza di un esperimento in digitale, proprio per la scelta di girarlo in un HD apparentemente figlio di un laboratorio visivo, ma questa impressione originaria sprezza col ‘mood’ di fondo, un umanesimo della pistola, delle operazione antidroga svolte in un tassativo anonimato. Talora lo sfondo contenutistico si riallaccia al gioco delle torsioni identitarie dei personaggi, costretti in altri atteggiamenti, in altri ruoli, pur lasciando in primo piano il nullismo ambientale (una Miami spettrale, ambasciatrice di una conclusione) nobilitato dalle luci urbane. Mann allestisce nuovamente la sua congettura sui terreni metropolitani, sugli incontri improbabili – prima le lezioni escatologiche tra un tassista ed un algido killer, adesso un rapporto amoroso tra una malavitosa ed un poliziotto incorruttibile che seduce la sua preda in totale inosservanza della deontologia professionale.
Il divismo viene così sacrificato in nome della totale predicazione dell’antieroismo e della disillusione irreparabile. L’epilogo mediano del film composto da una abbandono e da una salvezza, mostra quanta mole narrativa il racconto è riuscito a contenere nonostante (o grazie ? al) lo script scarnificato. La struttura è fondata sulle usuali dinamiche di spionaggio poliziesco, in cui i messaggi essenziali dei negoziatori di stupefacenti celano dei rancori di fondo, delle volontà inespresse, un profilo umanissimo. Fa sorridere una battuta, che potrebbe essere presa come tagline per tematizzare i più recenti contorni autoriali di Mann : “Ti piacciono i locali?” . In effetti il regista è, attualmente, il maggiore cantore estatico dei night club affollati, delle musiche digitali che risvolgono in livide variazioni sul tema principale della vita.
Autore: Roberto Urbani