Al termine della proiezione di “Superman Returns” si ha l’impressione che il cinema sia stato bistrattato ignobilmente alla stregua di un videogioco. Un po’ come quando George Lucas ha presentato l’ultimo capitolo della sua saga costruito sui prodigi digitali e le invenzioni extra-narrative.
Il film di Bryan Singer impone uno scarto particolare nei confronti dell’altra produzione fantascientifica o di provenienza cartacea, perchè azzarda con un irresponsabile desiderio di tramortire lo spettatore. 135 minuti in cui vigono leggi estranee al kolossal piatto e stantio della tradizione americana. La sembianza inedita di effetti visivi costosissimi rappresenta un’esclusività che arricchisce ancora di più questo strano ibrido post-hollywoodiano, vestigio delle recenti esperienze politiche statunitensi. Forse “United 93” di Greengrass e “World Trade Center” di Stone fotografano frontalmente l’11 settembre, ma in verità già da qualche anno a questa parte i film a stelle e strisce hanno raccontato velatamente i fatti terroristici. Come d’altronde fa “Superman Returns”, un grandioso e magniloquente pupazzo da duecentosettanta milioni di dollari che si propone come un vangelo apocrifo di un oltreuomo e di una nazione.
Il supereroe d’acciaio che s’arrugginisce miseramente indica la consapevolezza postuma che l’invulnerabilità è solo un’illusione molto pericolosa. La vertigine che procura Singer con la maestosa partitura sonora del genio Williams nasconde degli echi inconfutabili di trionfalismo ammaccato. Ogni volta che il fragore incessante della musichetta superomistica incalza la pellicola ricomincia, riparte per poi frenare bruscamente procurando agli spettatori la sensazione di essere indegnamente trascurati. Ed infatti il regista sembra sorvolare sul manierismo da polpettone perché non intende saziare il pubblico con delle regole troppo rodate. Questo è dimostrato dal ritmo zoppicante delle immagini e dalle lungaggini insolute che potenziano ogni fotogramma di una inedita trascrizione sgrammaticata delle regole da box office. Dopo il Batman di Nolan la Warner Bros s’appropria nuovamente di questa ibridazione sconvolgente caratterizzata da un supereroe vulnerabile e spietatamente umano (troppo umano?).
Il precedente straniante di questo Superman però è da rintracciare nel Mito occidentale per eccellenza, nella storia che contraddistingue la ‘Western culture’ da quella islamica ed ‘aliena’. Il padre spirituale di questa trasposizione è il Gesù di Gibson che il pubblico occidentalizzato ha imparato a conoscere nella sua brutale passione. Quando il villain Luthor sguinzaglia i suoi scagnozzi sull’eroe per la prima volta inerme e indifeso risulta impossibile ignorare l’assonanza blasfema tra le due vicende. Il versante laico di questa buona novella fumettistica è una avvenuta appercezione della propria identità aggiornata al fallimento dell’american dream. Per questo i comic movie che facevano delle sbavature drammatiche la propria essenza sono solo un ricordo lontano, il nuovo prototipo consegna al pubblico una serie stratificata di ossessioni nazionali. La cornice del film si sostituisce ad una trama quasi inesistente facendosi soggetto, la forma rimpiazza la sostanza occupando le lacune di una sceneggiatura bucherellata.
Senza dubbio l’epilogo burrascoso e la proliferazione finale di romanticismo sono i tratti residuali di una invenzione ancora acerba per essere realmente autonoma dai vezzi di genere. Ma ciò che si stanzia agli occhi dello spettatore è il ritratto di un grande nazione ferita che esorcizza le proprie paure nell’ennesima rappresentazione di catastrofismo. L’eroe che muore dopo aver salvato gli Stati Uniti da una spoliazione territoriale e poi resuscita, alimenta l’impianto messianico (il mondo ha bisogno di un salvatore? ovvero il mondo ha bisogno di una superpotenza dispensatrice di “libertà”?). Quella di Singer è una accorata stratigrafia delle convulsioni di un gigante.
Autore: Roberto Urbani