Inaspettatamente a rompere il tabù cinematografico dell’11 settembre ci pensa un inglese, il regista Paul Greengrass che, con il palpitante “United 93”, decide di raccontare l’altra faccia di quegli attentati. E lo fa come meglio non potrebbe, sebbene il soggetto prescelto contenesse implicitamente il rischio di rimanere impigliato tra i reticoli della sterile commemorazione filmica delle vittime. Lo spirito con cui vengono mostrate le dinamiche di quei funesti dirottamenti rispetta un ritmo incalzante, aiutato da un immane lavoro in sede di montaggio. Greengrass ci riserva l’impersonalità di quelle vicende famigerate senza mai consegnarci dei personaggi di riferimento a cui badare. L’assenza di protagonisti dà luogo ad una trama scarnificata, a differenza dell’ancora inedito “World Trade Center” di Oliver Stone che, stando alle indiscrezioni, dovrebbe rispettare i canoni della dramatization. I tempi del non-racconto di Greengrass sono strutturati per poi convergere fino al crescendo finale, che coincide esattamente con il destino dell’aereo.
Le famiglie delle vittime hanno direttamente collaborato alla ricostruzione di quel tragico evento, e la pellicola soffre quando sente il bisogno di ringraziarle in qualche modo: le ultime telefonate malinconiche dei passeggeri sono la tappa obbligata che il regista non poteva omettere, pur essendo in aperta contrapposizione rispetto alla freddezza che anima la narrazione per gran parte del film. Merita molto la scelta di non indugiare su questi aspetti, ritornando a descrivere gli stati d’animo piuttosto che i singoli sentimenti. Le panoramiche escludono risolutamente spunti di commiserazione, ma tendono solo a rispettare la tensione di fondo che pervade ogni inquadratura.
Da notare l’assoluta astensione da qualsiasi forma di adesione politica, il clima del film infatti abomina la possibilità di ipotizzare la responsabilità di qualcuno o qualcosa. Sbaglia chi vuole vedere nelle sequenze di incapacità burocratica un giudizio o un accento polemico per denigrare la sciagurata gestione di quelle emergenze terroristiche. La fase di stallo in cui s’impantanò l’America in quelle ore viene guarnita solo di una corposa dose di plausibilità e suspense. In alcune scene lo spettatore sarà addirittura tenuto in apprensione da anonimi radar in cui si scorgono le traiettorie impazzite degli aerei suicidi. “United 93” non delude perchè sfrutta al massimo le potenzialità di un soggetto piuttosto monodimensionale, in cui l’episodio principale del fallimento terroristico deve asservire tutte le impalcature filmiche. Lungi dal forzare questa premessa Greengrass include sommessamente le motivazioni religiose, quasi a voler ribadire che la sua non è un’opera da dibattito o di denuncia. Ed è positivo che la mano dell’autore rimanga in un certo modo invisibile, pronta a ritrarsi anche quando si potrebbe infarcire il tutto di innumerevoli situazioni di sceneggiatura. La secchezza stilistica testimonia una direzione degli attori pronta a nullificare gratuiti eccessi epidermici, nei quali talvolta incappa inevitabilmente. Tra gli attentati di quella mattina il volo 93 (l’unico a non raggiungere l’obiettivo prefissato dai terroristi) ha sempre goduto di una minore notorietà.
I media non lo hanno reclamizzato eccessivamente ed il film si avvale di questa marginalità per restituire una prospettiva inedita, sebbene il ‘nine/eleven’ sia già stato abbondantemente pluridocumentato e storicizzato.
Autore: Roberto Urbani