Tullio Kezich ha ricordato, marpione, che in Francia la critica ha premesso a qualunque dissertazione su “Volver” la lode lirica del corpo di Penelope Cruz. Fondoschiena ingigantito e giunonicamente tronfio per esigenze sceniche – e la primattrice spagnola si sa azzoppare alla grande, vedi il personaggio sciancato di Italia in “Non ti muovere” di Castellitto – e seno, e seni, i più belli del pianeta. Il film senza di lei non si poteva fare, s’è capito. O lei o tutti al mare. Questo perché l’amore per la fisicità, per la carne, “jamon” idealizzato di cui i madrileni sono ghiotti, riveste un’importanza centrale nei film di Almodovar. È il linguaggio corporeo insomma che detta i ritmi delle avventure umane (e filmiche). Meglio se femmineo: muliebre o trans. Le donne, insomma, sono il sesso forte. Gli uomini invece, anche in questa pellicola, costituiscono l’anello debole, involuto. Film di genere, anzi di razza, perché al melodramma gigante di periferia – che a dire il vero conta oggi ben pochi adepti tra i cinephile – il regista iberico vi attorciglia una spessa cortina visionaria e “impressionante”. Che impressione fa la mamacita “resuscitata” per chi vuol credere che sia così! Immagine che le ragazze in primo piano rielaborano e inghiottono per riconciliarsi con un passato turbolento. O per dare confidenza incosciente ad un semplice ectoplasma con i capelli tinti. Si scherza insomma. Lo si fa seriamente. La morte fa parte della vita e continua regolarne i rapporti quotidiani. Chi non sta al gioco non si adegua e rifiuta “Volver”. Ma il bello del folle trip d’autore è tutto lì. Premio collettivo a Cannes 2006 per tutte le adorabili silhouettes castigliane e per la sceneggiatura.
Autore: S. Ch.