Hanna (interpretata da una straordinaria Sarah Polley) è una ragazza strana, silenziosa. Avvolta in un silenzio artificiale, procurato da sé stessa.
Hanna fa tutti i giorni le stesse cose: arriva in orario in fabbrica, non ha mai fatto tardi, non si è neanche mai ammalata; ripete pedissequamente e quotidianamente le azioni che gli sono imposte dal ritmo meccanico della catena di montaggio.
Mangia sempre le stesse cose: un po’ di riso, mezza mela e delle crocchette di pollo.
Si costruisce piramidi di saponette per profumare di bucato o per lavarle di dosso il peccato: il tremendo segreto che l’avvolge e l’affligge giorno dopo giorno, dopo giorno, fino a quando il ritmo ripetitivo della quotidianità non ti consente di dimenticare un passato che ti si è conficcato dentro più e più volte in una voragine di atrocità che vorresti gettare nell’oblio e invece ti resta appiccicata addosso come una voluttuosa sanguisuga in cerca della tua anima.
Hanna non vuole dire da dove viene: è una piccola extraterrestre che con un piccolo gesto può decidere di uscire dal mondo. Vuole soltanto essere lasciata in pace.
E allora decidono di mandarla in vacanza (per un mesetto non di più) e lei invece trova un altro lavoro e dietro la porta… il suo passato.
Avvolto in un atmosfera greve e fluttuante, privi di un senso e disorientati dall’interpretazione assolutamente eccezionale di una Sarah Polley da Oscar e di un colossale Tim Robbins (che bella coppia) Isabel Coixet dà vita ad un capolavoro assoluto (prodotto dalla El deseo almodovariana, presentato nella Sezione Orizzonti, della 62ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia) non per questo senza sbavature e incongruità, ma in grado come pochi, di penetrare la sfera più profonda dei sentimenti umani. Dulcis in fundo, una chiara condanna alla guerra e alle atrocità che ogni giorno ci circondano e che per uno strano cortocircuito mediatico, costantemente sono dimenticate.
Autore: Michela Aprea