Per quanto un film di Cronenberg possa essere poco riuscito, si intravede sempre una cifra inconfondibile del suo cinema e della sua idea del cinema. È il caso di “A History of Violence”, l’ultima fatica del cineasta canadese che segna il suo ritorno nelle sale, a distanza di tre anni da “Spider”. La violenza del titolo c’è tutta, ma emergono altri elementi non di minore importanza nella pellicola presentata nel maggio scorso a Cannes. L’identità, il valore della vita umana e la sopraffazione tirannica sono sfaccettature mostrate quasi icasticamente, che arrivano ancora pulsanti di immediatezza allo spettatore. La quotidianità del sempliciotto bar-man Viggo Mortensen rappresenta anch’essa una violenza, una coercizione nei confronti della personalità repressa di un ex-gangster che il destino riporta sulla strada dell’omicidio e, soprattutto, a cospetto del suo passato mai del tutto sopito. Eccola, l’ennesima sferzata del regista di “Videodrome”, all’american dream. Un uomo con una famiglia normale e una vita abbastanza soddisfacente, è soltanto la superficie laccata di un criminale che si è stancato di osservare il sangue rappreso delle sue (innumerevoli) vittime per sistemarsi e prendere moglie. Dietro l’appariscente facciata si nasconde quindi un coacervo di misteri che sono stati ben celati da un demistificatore, bravo sia con la pistola che con l’uso ingannevole della sua voce affettata. Ma purtroppo questo spaccato di ordinaria follia non riesce a convincere del tutto, sembra un discorso mutilo. Il messaggio di Cronenberg viene distorto dalle scene di sangue e da una struttura che accusa qualche scricchiolio. L’economia del racconto non è ben compensata perchè il protagonista rimane, anche dopo l’epilogo, un personaggio incompiuto ed ambiguo, che formalmente sembra fatto a posta per spiazzare il pubblico, ma in sostanza lo confonde. I suoi occhi vitrei non disvelano definitivamente la criptica vicenda esistenziale di Joey Cusack che rimane effettivamente un segreto, non dipanato quanto basta per ammaliare e infarcire d’interesse gli spettatori. Se la sceneggiatura è pregnante nel descrivere il figlio Jack Stall interpretato da Ashton Holmes, ci regala però la figura sgradevole della moglie, a cui presta il volto la pur brava Maria Bello. Edie Stall, la sciagurata consorte, è un frullato di reazioni impulsive che non sarebbero mai potute essere meno banali e comuni. Le sue nevrastenie sono tutt’altro che avvincenti perchè rispettano le sembianze di un donna comune sull’orlo di una crisi di nervi che non non prova neanche a ribellarsi a questo imprevedibile episodio della sua vita coniugale. Menzione speciale per Ed Harris che, seppur relegato in un ruolo meno centrale, si dimostra la punta di diamante del film. Con l’occhio ammiccante e il sorriso sporco, il suo Carl Fogarty è un criminale vecchia maniera, smaccatamente in malafede, ma al tempo stesso instancabile affabulatore dalla faccia sfregiata. Il nuovo lavoro di Cronenberg non è quindi un gioiello, ma un buon film a metà strada tra una trama intrigante, che al principio promette bene, ed un lacunoso sviluppo che sancisce la bassa caratura di questo noir in sordina.
Autore: Roberto Urbani