E’ sicuramente il caso dell’anno, con incassi strepitosi in Francia e soprattutto nella “blockbuster home”, gli Stati Uniti, terra in cui – da Michael Moore in poi – s’è riscoperta evidentemente una certa passione per il documentario. Non possiamo far altro che rallegrarcene.
Quello del biologo francese Luc Jacquet è, in verità, prima di tutto un racconto ad alta densità di poesia e poi, in sè, è anche un documentario: la storia di un “popolo maledetto” (così come è stato definito dal regista-biologo) che per riprodursi deve puntualmente alla terza luna di ogni anno raggiungere l’Homok, una distesa di ghiaccio spesso, sul quale innamorarsi e covare i propri “pulcini”.
Stiamo parlando dei Pinguini Imperatori, delle loro danze e delle lunghe e stremanti marce che sono costretti ad affrontare tra bufere di neve antartiche con temperature medie intorno ai meno 50 gradi.
La prima marcia che sono costretti a fare, è quella “dell’amore”. E allora vedi una moltitudine impressionante di esseri goffi in frak, camminare o scivolare di pancia a mò di slittino, verso il luogo designato all’appuntamento. Maschi e femmine non si distinguono fino a quando non li vedi tutti lì riuniti sull’Homok. Ad informarci su chi è maschio (quelli impalati) e chi è femmina è la voce narrante di Fiorello – versione un po’ Maria Giovanna Elmi, un po’ speaker di Super Quark. Tra le pinguine è tutto un brulicare di schiaffi e spinte: anche perché i partner sono pochi e colei che non si accoppia rimane sola e senza scopo per un anno intero…
Finita la guerra, arriva il tempo dell’amore. E’ estasiante la tenerezza e la delicatezza degli “imperatori” antartici. Fino a un attimo prima grossi e goffi e ora, invece, leggiadri maestri dell’ars amatoria.
Il tutto accompagnato da una colonna sonora algida ma miracolosamente anche calda e sensuale, curata da Emilie Simon e Alex Wurman.
Poi il tempo delle mele termina. Le pinguine gestanti, dopo qualche tempo sono pronte per partorire. Una volta compiuto il miracolo della nascita pensano bene di ammollare l’ovetto da covare al padre e di farsi un paio di mesi al mare tra nuotate e gozzovigliate.
Intanto, ecco l’inverno. Questi poveri papà con la palla, l’uovo, letteralmente “sul” piede sono costretti a resistere due mesi al supergelo polare (meno 65 gradi e più), praticamente senza mangiare (perciò sò pochi). Poi l’uovo si schiude – non in tutti i casi felicemente – e il cerchio della vita si chiude, pronto per rigenerarsi.
Resta un interrogativo: ma come hanno fatto Luc Jacquet e la sua troupe di scientifici “vouyers” a resistere un anno nella tormenta infinita del Polo sud versione invernale? Uomini (e cineasti) d’altri tempi.
Autore: Michela Aprea