In un periodo di sostanziale stasi creativa, il cinema italiano non può che aggrapparsi ai grandi maestri in attività sperando nella rivelazione di una nuova ondata di registi sulla scia di Saverio Costanzo, esordiente nell’ottimo “Private”. Quando però a toppare è anche Benigni, che con il suo “La tigre e la Neve” non è riuscito a rinverdire i fasti d’un tempo, la penisola (almeno quella cinematografica…) versa nel più totale sconforto e si affaccia al futuro come verso un nembo, illuminato da pochi autori per lo più ultracinquantenni (ogni riferimento a Nanni Moretti è del tutto voluto). Tra i cineasti che mantengono accese le speranze del pubblico c’è Pupi Avati, autore con parecchie fatiche alle spalle che ritorna nelle sale con “La seconda notte di nozze”. La storia del film è incentrata sulla vicenda di Liliana Vespero e di suo figlio Nino Ricci, rispettivamente interpretati da Katia Ricciarelli e Neri Marcorè, che vivono la povertà del secondo dopoguerra a Bologna trovando a stento un tetto per dormire. Quando i furti maldestri di Nino non sono più sufficienti per tirare avanti, la donna decide di contattare Giordano Ricci, fratello del suo defunto marito. Quest’ultimo, possessore di una casa e artificiere a tempo perso, è un poveretto con un trascorso in ospedale psichiatrico, che ricorda immediatamente la bella cognata di cui era innamorato e la invita insieme al figlio in Puglia, contro il volere delle sue due zie petulanti (le fantastiche Marisa Merlini e Angela Luce).
A dare il volto a questo personaggio surreale è un sorprendente Antonio Albanese, che si presenta nelle vesti inedite di personaggio drammatico e comico allo stesso tempo. E stupisce la sua completa adesione alla natura del ruolo, complessa e sfuggente. Un pazzo con un sorriso stampato sul volto e due occhi intontiti, eccentrico ed un po’ ingenuo, pronto a regalare i suoi averi per qualcosa di autentico e genuino, quel qualcosa che manca nella sua esistenza da anacoreta in piena astinenza sessuale. Al comico che era (ed è) Albanese ha preferito aggiungere un altro profilo intrigante che gli può spianare la strada nel mondo della celluloide perché, di fatto, questa rappresenta la sua prima performance “seria”.
Avati convince soprattutto nel ritmo delle scene, anche se nella scelta degli attori ha sbagliato a scritturare l’ex-signora Baudo apparsa monocorde e poco ispirata. Il suo personaggio richiedeva altri toni e, strano a dirsi per un soprano, una voce più articolata ed espressiva. Resta il fatto che per essere un’esordiente non ha sfigurato e fa ben sperare per il suo futuro nel campo del cinema. A fare da contraltare drammatico di Albanese, anche se non riesce ad eguagliarne l’efficacia, c’è Marcorè. L’attore che già aveva lavorato con Avati in “Il Cuore Altrove”, non esplode mai, rimanendo ingabbiato nel personaggio di Nino Ricci peraltro costruito benissimo in fase di sceneggiatura. Con il suo atteggiamento ineffabile da cleptomane e un sorriso machiavellico da furbastro incallito quasi sempre votato al fallimento, riesce però a dare un apporto al film pregnante e mai banale.
Con una trama forte e ben intelaiata, il regista de “La Rivincita di Natale” si impone con uno stile asciutto, conteso tra poetica e immediatezza. Per fortuna l’Italia (cinematografica) non rantola nel buio.
Autore: Roberto Urbani