Vincitore di quarantananove premi, già incensato ai Golden Globes, a Venezia e ai Bafta Awards, “I Segreti di Brokeback Mountain” è in lizza con otto nominations per la corsa agli Oscar. Film del momento e oggetto di diverbi, l’opera di Ang Lee sembra coniugare un aspetto mondano del cinema con quello autoriale. Una commistione inquietante, apparentemente indigesta al pubblico ma che risulta invece mietitrice di vittorie al box office.
L’Academy cerca di premiare i film come questo che tematizzano aspetti importanti della realtà con una compostezza creativa mai eccedente, con avveduti slanci narrativi neutri e intensi al contempo. L’omosessualità filmata dal cineasta taiwanese è un ritratto di una nuova dimensione amorosa sincera ed autentica, pronto a staccare il biglietto per l’immaginario collettivo. Gli Usa hanno da sempre temuto, a causa di un’endemica sessuofobia, la rappresentazione in celluloide di rapporti omoerotici e questo rappresenta il fulcro del successo di una pellicola come quella di Lee. La freschezza dei contenuti è quindi dovuta ad un’innovazione solo per alcuni spettatori, poco avvezzi a baci passionali tra persone dello stesso sesso. Se in “Philadelphia” ad amare un altro uomo era un seriopositivo o in “Dog Day Afternoon” un diseredato sociale, adesso risulta “straordinario” che lo faccia anche un bel rude cowboy.
Nella prassi cinematografica è in assoluto un prodotto discreto, che si avvale di performance ottime da parte di Heath Ledger e Jake Gyllenhaal e non lascia molto spazio alle degenerazioni caramellose da love-story in cui la trama poteva cadere. L’ostilità dei meccanismi sociali e l’ipocrisia dei legami coniugali fanno da contorno ad un sentimento forte e duraturo nel tempo, che trova nella Brokeback Mountain del titolo un luogo al di fuori di un mondo marcio.
Con un ritmo a tratti letargico, la storia cede il passo però ai convenzionalismi del genere arenandosi nella peculiarità della trama, forte di un pretesto di sicuro impatto.
Affianco ai due cowboy non spiccano altri personaggi, se non la silenziosa Michelle Williams (nel ruolo della sciagurata moglie di Ennis, interpretato da Ledger) brava nel dosare la mimica di una personalità implosiva che cova un risentimento mai esternato del tutto. La complessiva semplicità con cui si dipana la trama e le situazioni di sceneggiatura talvolta stucchevoli nella loro ripetitività (i due morosi si incontrano sui luoghi dove nacque la passione con una cadenza annuale, quasi mai infranta) possono far sottovalutare la riuscita positiva che, oltre lo stile affetto da calligrafismo, non delude. Certo i percorsi battuti non destano clamore perchè la medietà dell’intreccio, tesa a non scuotere lo spettatore, segue uno standard prevedibile ed è onesto che sia così. Non sarebbero state plausibili velleità di sperimentalismo cinematografico quando dietro alla macchina da presa c’è comunque un regista reduce da “Hulk”, blockbuster da svariati milioni di dollari.
Autore: Roberto Urbani