Benigni fino a quindici anni fa era un gaudente arlecchino, metteva in croce Craxi, sderenava i democristiani, adesso è poeta. Ecco perché non ci fa più ridere. Spargeva, per la gioia quasi di tutti, sale toscano sulle macerie della prima e dell’incipiente seconda repubblica (sua la chanson: “quando penso a Berlusconi mi si sgonfiano i coglioni/ mi si ammosciano le palle, non so più dove cercarle…”). Però, ora, ben venga la poesia. E i versi di Paolo e Francesca e Farinata degli Uberti donati alla tv. Al cinema la “svolta” elegiaca era stata già varata da tempo: esattamente con l’exploit mondiale de “La Vita è Bella”. Anche la “tigre” allora – al pari di quanto accade nel campo di sterminio nazista – dovrebbe scoppiare d’emozione, ammiccare al sogno oltre il dovuto, sovvertire le regole, evocare sapori, odori sommersi, mondi irraggiungibili. Invece noialtri fedelissimi spettatori scippiamo al massimo qualche muscolosa pennellata qua e là, da psicofiaba felliniana (il matrimonio onirico; il circo; il cameo meraviglia di Tom Waits canterino; il cielo da mille e una notte della Mesopotamia). Mentre il motore narrativo è lì a fare cilecca. Fa leva solo sulle scosse attorcigliate del corpo dell’ex sceicco beige, e non su un racconto da gran cinema: Vincenzo Cerami che faceva? dormiva o già pensava a Rockpolitik di Celentano di cui è coautore?
Il “nuovo” Benigni, insomma, si incarta perché avendo troppe cose da dire non si raccapezza ad organizzarle compiutamente in forma film. La poesia, come chiosa Alessio Guzzano, diventa nella fattispecie solo un perfetto “alibi” a surplace e vuoti. Le trovate, piatte, pescano ancora nel lagno delle casualità alla “Il Mostro” (lo spumante che si stappa al momento giusto); i dialoghi anoressici sterilizzano la prima parte; Nicoletta Braschi ha più espressività quando entra in coma che non. La lezione sulla letteratura impartita agli studenti da Attilio-Benigni è bella ma resta una cosa “che ti aspetti”. Come quando, per dirne una, sul grande schermo Aldo dice a Giovanni e Giacomo “non-ci-posso-credere” trascinando di forza il personaggio tv al cinema.
Questo istant-movie (anche) sul conflitto irakeno, forse, manca di spudoratezza. Punta il dito, non potendo non raccogliere consensi unanimi, contro l’embargo – mancano le medicine a Bagdad – e Saddam Hussein, il cui faccione maiolicato aleggia nell’ospedale senza speranza. Ma accomuna americani e popolo inerte nell’ineluttabilità della guerra, quasi che la stessa non avesse cause prime. Scoppia e basta. Politicamente corretto, politicamente pettinato.
Il regista di “Johnny Stecchino”, a scrutare da un’altra ottica, un coraggioso e plausibile tentativo lo fa: quello della messa in scena di un cinema “altro”, di un lavoro rarefatto, color pastello, arcaico, distante dai canoni attuali. Avvicinabile al lirismo spinto e iperreale del recentemente scomparso Sergio Citti. Dall’autore romano però si allontana troppo presto, sforando nella di lui perfetta antitesi. Citti – e tanti altri poeti di incubi soavi – non avrebbero mai alzato in trionfo la quiete del sentimento quanto, piuttosto, il destino urlante e (pan)tragico della Storia.
Il film è destinato a bissare i successi al botteghino del discusso “Pinocchio”. Distribuito in più di 900 copie, un record per le sale cinematografiche di casa nostra.
Autore: Sandro Chetta