La lingua romana, trilussiana, di Sergio Citti, regista di sogni grevi, da un po’ di tempo andava ripetendo due, tre concetti: “Pelosi ha mentito: io so chi ha ucciso Pasolini. Ma lo dirò solo al giudice”. Le corti però non l’hanno mai convocato a testimoniare. Ma come, proprio Sergio, l’amico fraterno del poeta che più di tanti altri aveva perso una parte di sé col delitto di Ostia, proprio lui non viene chiamato a deporre? Le sue parole annunciavano una dinamica ben diversa dei fatti. Pasolini era stato “convocato” da quattro persone, presentatesi come autrici del sequestro di alcune bobine di “Salò”, l’ultimo film. Solo in un secondo momento – ha sempre asserito Citti – il regista sarebbe stato “trasportato” forzatamente ad Ostia, all’Idroscalo.
Il “mistero italiano” di Pier Paolo Pasolini, con un colpo di teatro, aveva perciò ripreso a sanguinare svariati mesi fa, in seguito alle nuove dichiarazioni rese in tv da Pino Pelosi detto “La Rana”, unico condannato (a nove anni) per quella vicenda.
L’ironia salace della sorte ha voluto che Sergio Citti spirasse alle 5 del mattino di mercoledì 12 ottobre, alcune ore prima dell’ennesimo stop alle indagini: il gip ha infatti accolto la richiesta del pm Giovanni Ferrara di archiviazione per la terza inchiesta sul caso PPP.
Preziosa risorsa per lo scrittore corsaro i Citti: pluralizzati se ci allarghiamo anche a Franco, l’attore, e volendo a Silvio, comparsa in “Accattone”. Era Sergio però, proletario, “borgataro” illuminato e immaginifico, “lessico parlante” (ossia autore/suggeritore dei dialoghi in romanesco nei primi film di PPP), a donare forse qualcosa in più. E’ stato lui a proporsi – come ha ricordato Carlo Verdone – quale sbarazzino Virgilio, accompagnatore di Pasolini giù, nella selva del sottoproletariato romano e quindi universale. Eccoli qua, diceva Sergio, gli invisibili santificati dall’innocenza e distrutti dalla Storia. Il Terzo Mondo che cominciava – negli anni 50 –appena dopo il Cupolone.
Ma la produzione di Sergio Citti va separata, come egli stesso teneva a puntualizzare, da quella dell’amico famoso. O meglio, è lecito aggiungere che dall’osmosi grassa e miracolosa e dal confronto metodico tra i due, diventa plausibile riconoscere lo stigma dell’uno, Sergio, nei film dell’altro, e viceversa. Salvo, va da sè, valutare lo sforzo di ciascuno a suggellare di unicità i propri estratti di celluloide.
E’ il caso di “Ostia” (1970), primo lavoro di Citti, di enorme successo, sceneggiato con lo stesso Pasolini. O di “Storie Scellerate” (1973) in cui dirige il fratello e Ninetto Davoli. L’acmè si tocca nel ’77 con “Il Casotto”, unico tra i suoi lungometraggi riproposto ancora oggi di tanto in tanto in tv. La sequela di interpreti è impressionante (Gigi Proietti, Michele Placido, Mariangela Melato, Paolo Stoppa, addirittura Jodie Foster), almeno quanto folgorante è l’idea: la macchina da presa e di conseguenza gli attori non escono mai da un “casotto”, una stanza-spogliatoio sulla libera spiaggia di Ostia. Il film si svolge interamente lì, nel felice monstrum del teatro impastato di cinema. Citti scrisse anche i dialoghi, di insuperabile veracità, per “Brutti, sporchi e cattivi” di Scola, osannato a Cannes nel 1976.
Il regista romano ha continuato a scrivere e girare film fino all’ultimo, nonostante la cronica mancanza di produttori e distributori. Gli attori però non mancavano mai. Gassman, che lo adorava, Silvio Orlando, Benigni (diretto nell’allucinato “Minestrone”), Claudio Amendola, protagonista dell’ultimissimo “Fratella e Sorello”. Tutti allettati come fanciulli all’idea di mettersi alla prova col suo cinema incomparabilmente “diverso”, lirico fino all’incanto e insieme senza vie di scampo, stritolatore e castratore del buonismo, del terzomondismo, del nuovo e più devastante fascismo, e di parecchi altri ismi. “Intellettuale di strada” ha scritto Silvana Silvestri su il Manifesto; “genio abbandonato” titolava l’Unità nel giorno della dipartita.
Sergio Citti è morto a Fiumicino, in via Anco Marzio dove viveva col fratello e alcuni familiari. Ed è morto povero. Storia vecchia e purtroppo sempre attuale. Del sostegno che una legge dello Stato – la legge Bacchelli – mette a disposizione per gli artisti in vita, non ha potuto beneficiare, non ha fatto in tempo: perché la burocrazia è lenta e il menefreghismo colpevole dei facente funzione droga ogni aspettativa.
Con i primi film – Accattone, Mamma Roma, La Ricotta – che scrisse e in pratica cofirmò con l’amico Pier Paolo, e con i suoi dieci lungometraggi, Sergio Citti ha fatto ciò che Caravaggio realizzò in pittura: al realismo ineccepibile e mimetico dei fiamminghi quattrocenteschi, il Merisi aggiunse il mistero metafisico di Carne e Spirito; al chiarore cronistico del cinema neorealista del dopoguerra Citti sovrappose la verità scandalosa dell’essere ultimi. Manipolò con grazia la materia. Fino a farla diventare, meraviglia!, disperata poesia.
Autore: di Sandro Chetta