La scena madre del film è sicuramente quella in cui Jordan Two-Delta guarda la “vera” se stessa (Scarlett Johansson) in una vetrina, in uno schermo televisivo, nello spot vero (senza virgolette) della Calvin Klein. Il capolavoro della presa in giro. Cioè, quando mai s’era visto uno spot televisivo completo, in un film? Certo, in ogni multisala che si rispetti veniamo annichiliti da almeno venti minuti di pubblicità prima che il film inizi, ma una cosa così non s’era mai vista. Da applausi veramente. Geniale.
Quelli del dipartimento marketting (sic!) chiamano tale tecnica product placement, così definita da Wikipedia: “Product placement is a promotional tactic used by marketers in which characters in a fictional play, movie, television series, or book use a real commercial product. Typically either the product and logo is shown or favourable qualities of the product are mentioned. The product price is not mentioned nor are any negative features or comparisons to similar products. Very generally, product placement involves placing a product in highly visible situations. The most common form is movie and television placements”.
E, per in non-anglofili, ecco venire in soccorso l’ultima versione (aggiornata al 2005) dello Zingarelli: Product Placement [loc. ingl., propr. ‘collocazione (placement) del prodotto (product)’; 1996]
loc. sost. m. inv. (pl. ingl. product placements) * Tipo di pubblicità indiretta, che consiste nell’inserire o nel citare in un film, in uno sceneggiato televisivo, in un romanzo ecc. un marchio o uno specifico prodotto.
Detto in due parole: pubblicità nascosta. Vediamo un film, e all’improvviso ecco apparire un prodotto: la luce è quella giusta, il logo è perfettamente a favore della telecamera. Fico. Rende il film più realistico, dice. Ma poi va a finire che il film diventa uno spot pubblicitario: ambienti, situazioni, dialoghi, tutto.
È quello che accade a questo The Island: questo non è un film, ma uno spot. Quali prodotti pubblicizza The Island? Puma. Nokia. Budweiser. Il sopraccitato Calvin Klein. Apple, e – per par condicio, certo – Microsoft. Più altri marchi che sicuramente ci saranno sfuggiti: la bottiglietta d’acqua minerale, i pennarelli nella casa del tizio “vero”, l’orologio, e non dimentichiamoci delle automobili (e sul sito del film si pubblicizza addirittura lo yacht!). E forse anche quella gigantesca “R” sul grattacielo è il simbolo di una famosa casa produttrice di videogiochi che magari si occuperà del videogame tratto dal film… Solo paranoie?
Quello che stupisce è fino a che punto certi attori miliardari e, almeno si presume, “intelligenti” come Scarlett Johansson e Ewan McGregor (e Steve Buscemi, che comunque non ha un ruolo da protagonista) siano disposti a (s)vendersi e a sostenere (e quindi a perpetuare) questo tipo di mercato cinematografico (non Cinema, ecco). Inutile menzionare il regista, un sicuro mestierante cresciuto a blockbuster e videoclip, assoldato dai soliti produttori che se producessero bibite ipercaloriche per loro sarebbe lo stesso. Bastano che ci siano i soldi.
Ma poi leggiamo che il produttore sarebbe addirittura Spielberg… e allora la tristezza si fa ancora più grande. Perché la storia, in questo tipo di film, è secondaria. Nello specifico qui si tratta di un clone (un “agnato”) tutto di bianco vestito che, grazie a un amico “umano”, inizia a porsi delle domande e dopo un po’ capisce di essere solo un prodotto nato per partenogenesi (come ci viene mostrato) e cresciuto a messaggi subliminali, ricordi indotti e sogni potenziali (la fantomatica “isola”/paradiso terrestre, appunto), e il cui unico scopo di vita in realtà è quello di essere una polizza assicurativa per cittadini molto abbienti che pagando miliardi si sono garantiti il diritto all’eternità. Le cose si complicano quando Lincoln Six-Echo, tale il nome del disgraziato, si innamora (così pare) della sua amica Jordan Two-Delta (la tizia della Calvin Klein), grazie alla quale scopre anche la vera “isola” (…).
Lincoln decide quindi di salvare tutti i cloni e per fare questo dovrà combattere contro il solito frankenstein pazzo suo creatore e i soliti “uomini in nero” che sfoggiano le solite ultra-sofisticate e terrificanti, e purtroppo oggi del tutto verosimili, armi/tecnologie di controllo.
Insomma, il solito saccheggio dal povero – incompreso in vita, spremuto al massimo alla sua morte – P.K. Dick con qualche citazione/scopiazzatura “colta” qua e là: un po’ di Blade Runner (il capannone abbandonato e la storia) appunto, un po’ dell’immancabile Matrix (dove abbiamo già visto una corsa sull’autostrada così?), e ci è sembrato addirittura di cogliere una citazione biblica quando i due cloni – novelli Adamo ed Eva rinati alla vita – vagando nel deserto s’imbattono in un serpente indicato sbrigativamente come il male. Tuttavia l’apoteosi del luogo comune viene raggiunta quando il nero (fino a poco prima un cattivissimo “uomo in nero”…) si ricorda del passato da schiavo del padre e (ben vengano gli spoiler, se serviranno a non andare a vedere questo film!) salva alcuni cloni lì lì sul punto di essere gassati come gli ebrei ad Auschwitz, e non è un caso se compare anche la parola “eugenetica” nel film… ma per favore!
Stendiamo pure un velo pietoso sul presidente simil-bush che viene definito “un idiota”: wow, satira corrosiva eh! Una pernacchia fatta da un bambino sarebbe stata più cattiva.
Superfluo menzionare numerosi buchi della sceneggiatura e coincidenza ridicole, a questo punto.
Basta. Il non andare a vedere questo tipo di film – nemmeno per divertimento – deve essere una presa di posizione decisa, sicura. Solo così si smetterà di spacciare questi ibridi (qui non è in gioco solo la dicotomia finzione/realtà ma quella ben più pericolosa pubblicità/non-pubblicità!) come film, e si potranno cercare nuove strade per il Cinema. Che poi, in verità, pare che questo film sia stato un clamoroso flop (tanto da buttare la Dreamworks sul lastrico?) in quel paese lì, al di là dell’oceano. Ci piacerebbe credere a una giustizia divina o, addirittura, a una presa di coscienza del pubblico, a un’intelligenza finalmente (ri)messa in moto… ma la nostra grande disillusione non ce lo permette. Magari c’era solo un qualche blockbuster più allettante nelle sale, in quei giorni lì.
Autore: Lucio Carbonelli luciocarbonelli@gmail.com