Nonostante una carriera ventennale, è solo con l’avvento del nuovo decennio che Omar Souleyman è stato investito da un hype eccezionale. Spropositato. Sproporzionato, sotto molti punti di vista. Un hype che è la causa del salto qualitativo enorme che ha compiuto la sua vita musicale: per anni semplice cantante per matrimoni, seppur di fama nazionale, per ritrovarsi sul palco del Primavera Sound nel 2011.
Il merito, l’intuizione, è stata della label statunitense Sublime Frequencies, dopo che artisti europei come Bjork avevano dimostrano un certo interesse ed un discreto apprezzamento per l’artista siriano. Questo appeal di Souleyman presso artisti della scena occidentale che trova la conferma e il culmine nella volontà dell’elettronico Four Tet, celebre e prolifico artista contemporaneo, di curare la produzione dell’album del Nostro, uscito lo scorso ottobre sotto il titolo “Wenu Wenu”. Un lavoro che può essere considerato pacificamente come vero esordio dell’artista siriano, visto che in vent’anni di carriera aveva firmato centinaia di produzioni che erano per lo più registrazioni di performance live. Un lavoro che, prevedibilmente, è stato celebrato e portato in gloria dallo stesso hype che ne aveva già permesso l’entrata nel mercato occidentale, in modo iperbolico ed eccessivo.
Ciò che più stride nei lavori di Souleyman non è tanto la monotonia e la ripetitività che potrebbero far parte dello stile frenetico della dabke (miscela di dance-elettronica-musica siriana), quanto più un’essenzialità e una semplicità che riducono all’osso la carica espressiva dei componimenti. Insomma, particolare è particolare; è senz’altro capace di far muovere i culi, caratteristica sacrosanta della musica dance; con echi orientali, sicuramente. Però l’impressione che suscitano queste sette tracce è che la composizione sia lontana dalla spontaneità e dalla necessità di sperimentare, superando le tradizioni musicali siriane piuttosto che europee, magari curandone l’incontro e armonizzandone le differenze. Pare, ad esempio, più urgente la sola traccia dei Beatles, contenuta in “Revolver”, Love You To, dai ritmi orientali e dal pop inglesissimo. Oppure, per trovare un paragone più recente, la miscela letale di strumenti egiziani e psichedelia europea dei torinesi La Piramide di Sangue nel loro esordio, targato 2012, “Tebe”.
Se già il concerto al Primavera Sound di Barcellona aveva lasciato interdetti molti, questa riproposizione passiva di musica di indubbia tradizione siriana non può essere considerata un capolavoro della musica elettronica, semplicemente per la diversità dai soliti suoni che contiene questo album. La dabke è un ibrido di pop siriano ed elettronica, che si dispiega su un tappeto di suoni elettrici frenetico, piuttosto martellante. A completamento si sviluppano le liriche, con la voce piena di Souleyman, in cui riecheggiano evidenti cadenze orientali, ripetute tanto da diventare ossessive; liriche di evidente matrice pop, cioè capaci di entrare in testa, fissarsi e rimanerci per un po’. L’attesa e la curiosità per la produzione sapiente dell’artista inglese Four Tet svanisce dopo poco, vista l’invisibilità della mano del produttore che non ha in alcun modo modificato le composizioni di Souleyman, che rimangono insipide, incomplete e sbiadite.
Dunque, l’esito dell’approdo di Omar Souleyman in occidente non è stato quel successo che in molti auspicavano o preannunciavano. Ad esso si lega la delusione per una collaborazione con Four Tet che, se prima prometteva sperimentazioni curiose, a posteriori possiamo dire mancata, visto l’apporto nullo del britannico. Una musica che non sfrutta la sua diversità e i suoi impulsi inconsueti ma, anzi, appare piatta e priva di grinta. E il rammarico c’è, davvero.
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autore: Simone Pilotti