Devo chiarire subito che questo disco è per me più una questione di cuore e di suggestioni che altro. Waxahatchee sembra che sia uscita dagli anni ’90 dalla porta del grunge e sia rimasta poco oltre quella soglia ad aspettare con la chitarra in mano. Non che il sottoscritto indossasse ai tempi la camicia di flanella perché si sentisse un Kurt Kobain dei poveri, anzi, i miei ascolti ai tempi non erano così definiti; ma questi suoni mi risultano familiari e solo oggi mi rendo conto di quanto facessero parte del mio quotidiano anche in gioventù.
Erano le stagioni in cui potevo condividere gli auricolari del mio walkman con una ragazza, seduti sui gradini di qualche strada ignorando la scuola, convinti che noi e quel piccolissimo spicchio di esistenza potessimo rappresentare l’universo intero. Avevamo la possibilità di racchiudere tutte le preoccupazioni in una storia d’amore tra adolescenti, vivevamo nel lusso delle emozioni e dei sentimenti e non ce ne rendevamo conto.
In tal senso pago il mio tributo ad un disco, questo, non scevro di difetti e a tratti carente di personalità, ma che ha nei suoni quel richiamo alle origini al quale proprio non riesco a sfuggire. E’ per questo che se ne parla anche di più rispetto al valore del lavoro al netto dei passaggi a vuoto. Forse perché a parlarne è una generazione di trentenni/quarantenni che in buona parte si trova intrappolata in quella stessa bolla spazio temporale che bagna di nostalgia ad ogni passaggio nel lettore.
“Cerulean Salt” è un percorso semplice, fatto di qualche spigolo ma bagnato di pop, intriso di storie d’amore spezzate e dubbi esistenziali. Tutte cose che in qualche modo ci siamo lasciati alle spalle e che allo stesso tempo ci fanno inesorabilmente sentire più grandi di quello che in realtà vorremmo.
In questi solchi ci vengono restituite quelle sensazioni perdute e, nelle giornate giuste, quelle in cui abbiamo ancora il tempo di perderci nel nostro microuniverso di sentimenti, è il miglior regalo possibile.
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autore: Enrico Amenodola